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Fallimento dei modelli murini di xenotrapianto per gli studi sul cancro

[Utama FE, LeBaron MJ, Neilson LM, Sultan AS, Parlow AF, Wagner KU, Rui H. Human prolactin receptors are insensitive to mouse prolactin: implications for xenotransplant modeling of human breast cancer in mice. J Endocrinol. 2006 Mar;188(3):589-601.]

Abstract:

Experimental testing of growth, metastatic progression and drug responsiveness of human breast cancer in vivo is performed in immunodeficient mice. Drug candidates need to show promise against human breast cancer in mice before being allowed into clinical trials. Breast cancer growth is under endocrine control by ovarian steroids and the pituitary peptide hormone prolactin. While it is recognized that the most relevant biologic effects of prolactin are achieved with prolactin from the matching species, the biologic efficacy of mouse prolactin for human prolactin receptors has not been recorded. Thus, it is unclear whether the mouse endocrine environment adequately reflects the hormonal environment in breast cancer patients with regard to prolactin. We now show both recombinant and natural pituitary-derived mouse prolactin to be a poor agonist for human prolactin receptors. Mouse prolactin failed to induce human prolactin receptor-mediated biologic responses of cell clustering, proliferation, gene induction and signal transduction, including activation of Stat5, Stat3, Erk1/2 and Akt pathways. Consistent data were derived from human breast cancer lines T-47D, MCF-7 and ZR-75.1, as well as human prolactin receptor-transfected COS-7 and 32D cells. Failure of mouse prolactin to activate human prolactin receptors uncovers a key deficiency of the mouse endocrine environment for human xenotransplant studies. Since most human breast cancers express prolactin receptors, human breast cancer transferred into mice is unnaturally selected for growth in the absence of circulating prolactin. The new insight raises concerns about the validity of analyzing biology and drug responsiveness of human breast cancer in existing mouse xenotransplant models.

I limiti dei modelli animali geneticamente modificati

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

“Geneticamente modificato” (abbreviato GM) è un termine generico per indicare diversi tipi di manipolazione operata sul genoma degli organismi animali (ma anche vegetali, batteri, ecc.) da parte dell’uomo attraverso tecniche di ingegneria genetica.

Un animale transgenico è un animale geneticamente modificato a cui è stato inserito DNA esogeno (proveniente da un’altra specie) all’interno del genoma.

Un animale knockout è un animale in cui è soppressa l’espressione di un determinato gene. Knockin è un animale nel cui genoma è stato inserito uno specifico gene esogeno (ad es. umano) sostituendolo a quello originario, che è stato inattivato. In accordo con le statistiche (Home office statistics 2005) tra il 1990 ed il 2005, si è verificato un progressivo aumento dell’utilizzo degli animali GM in UK, principalmente topi. Diversi consorzi internazionali sono coinvolti nel generare topi GM, con l’obiettivo collettivo di isolare e caratterizzare almeno una linea di topi GM per ogni gene nel genoma murino.

consorzimutagenesi

Una selezione tra i principali programmi/consorzi di mutagenesi

Principali vantaggi dei modelli murini GM

  • L’utilizzo dei modelli murini GM è giustificato da diversi vantaggi:
  • I topi sono relativamente semplici da far riprodurre e da mantenere in cattività in modo economico
  • Hanno vita breve: non si pongono problemi per il mantenimento e le cure dell’animale a lungo termine, inoltre in poco tempo si possono ottenere diverse generazioni quindi si possono ad es. osservare come vengono trasmesse le mutazioni nelle generazioni successive
  • Sono particolarmente adatti all’analisi ed alla manipolazione genetica e sono docili
  • Esiste un’enorme quantità di informazioni sulla biologia, fisiologia e genetica dei topi utilizzati in laboratorio
  • La comparazione dei genomi rivela che uomo e topo hanno dei genomi di grandezza comparabile e condividono un’alta percentuale di geni (Mouse Genome Sequencing Consortium 2002, International Human Genome Sequencing Consortium 2001).
  • Processi cellulari, biologici e fisiologici condivisi

Limiti

La creazione di un solo ceppo GM può richiedere l’utilizzo di un numero molto grande di animali, poiché a) i metodi utilizzati per indurre mutagenesi non sono del tutto efficienti b) c’è una scarsa trasmissione delle modifiche genetiche alla prole c) le alterazioni genetiche possono interferire con la fecondità e la sopravvivenza.

L’utilizzo dei modelli murini GM potrebbe in alcuni casi fuorviare i ricercatori, specie nello studio delle malattie poligeniche e complesse.

Riportiamo soltanto alcuni esempi di come la modifica indotta artificialmente di uno o più geni all’interno del genoma di un animale possa portare a conseguenze del tutto impreviste.

Fibrosi cistica

I modelli murini di fibrosi cistica, ottenuti attraverso la tecnica del gene targeting e delezione del gene per il CFTR (cystic fibrosis transmembrane conductance regulator, un canale ionico) presentano quasi esclusivamente i sintomi gastrointestinali della malattia e non quelli polmonari come nell’uomo (Snowaert 1992). Ciò potrebbe essere dovuto alla co-espressione, nel polmone del topo ma non nell’uomo, di un trasportatore alternativo, che compensa la mancanza del CFTR (Rochelle 2000). Inoltre nel polmone di topo le cellule secernenti muco sono presenti in misura minore rispetto al polmone umano (Ameen et al. 2000). I modelli murini di fibrosi cistica non presentano nemmeno disfunzioni pancreatiche, cirrosi epatica e diminuzione della fertilità, tutti segni tipici della patologia nell’uomo (Mall et al. 2004).

Anemia falciforme

Nel corso degli anni sono stati creati diversi modelli murini (transgenici) di anemia falciforme. Questa forma di anemia è causata nell’uomo dalla mutazione del gene responsabile della sintesi della catena beta dell’emoglobina. Tale alterazione si traduce in una sostituzione di un amminoacido nella catena beta della globina, con conseguente formazione della cosiddetta emoglobina S (HbS), che in determinate situazioni conferisce all’eritrocita la tipica forma di falce. Ciò determina il quadro clinico di anemia emolitica cronica. I modelli murini di anemia falciforme tuttavia ricapitolano soltanto parzialmente ed in modo limitato la patologia dell’uomo: in alcuni casi non presentano una sufficiente proporzione di eritrociti anormali, in altri sono presenti gli eritrociti falciformi in rilevante quantità ma ciò non si traduce necessariamente in un quadro di anemia emolitica (Greaves et al. 1990, Trudel et al. 1999). Anche i migliori modelli murini di anemia falciforme riproducono soltanto alcune delle caratteristiche della malattia umana (Paszty et al. 1997, Manci et al. 2006)

Diabete di tipo 1

Sono stati creati dei modelli murini knockout di diabete insulino dipendente principalmente per cercare di comprendere il ruolo del sistema immunitario e della genetica nella patogenesi di questa malattia. I modelli murini potrebbero essere degli ottimi ausili per la comprensione dei meccanismi molecolari di base che sottostanno all’autoimmunità (Melanitou et al. 2005). Tuttavia i rischi che potrebbero derivare da un’eccessiva focalizzazione sui modelli murini, in particolare per quanto riguarda il sistema immunitario, sono stati evidenziati da diversi autori e già riassunti nell’articolo “modelli murini e sistema immunitario”. Senza contare che le differenze tra il diabete nell’uomo e la patologia provocata nei modelli murini sono degne di nota, ad esempio nei topi l’incidenza della malattia è maggiore per il sesso femminile, cosa che non avviene nell’uomo (Whitacre 2001).

Diabete di tipo 2

Sono stati creati diversi modelli murini GM per lo studio di specifiche caratteristiche del diabete di tipo 2. I topi knock out non si sono rivelati utili per decifrare i meccanismi di tale patologia. Topi doppi knock out per recettore dell’insulina ed il canale che ne regola la secrezione non hanno manifestato sintomi di diabete come invece era stato previsto in base all’omologia di funzione tra proteine umane e murine (Kanezaki2004). Inoltre, mentre è noto che nell’uomo una mutazione nel gene che codifica per uno specifico recettore coinvolto nella regolazione della secrezione dell’insulina (SUR1) causa precocemente una persistente iperinsulinemia ed ipoglicemia, i topi knock out per lo stesso gene presentano una glicemia normale. Ciò è probabilmente dovuto alla presenza, nel topo e non nell’uomo, di un secondo meccanismo di regolazione per la secrezione dell’insulina (Shiota 2002).

Alcuni segni del diabete di tipo 2 umano, come obesità, resistenza all’insulina ed iperinsulinemia sono presenti nei topi che esprimono in modo ectopico1 la proteina “aguti”, una proteina coinvolta nella pigmentazione della pelliccia e nella regolazione del peso corporeo. Tali modelli hanno semplicemente confermato che la proteina agouti ha diverse funzioni nel topo, molte delle quali possono ricordare superficialmente le funzioni delle proteine umane. Non sono tuttavia stati utili a chiarire i meccanismi patogenetici del diabete di tipo 2 e dell’obesità nell’uomo.

Il “diabete” dei ceppi murini GM sopra descritti, a differenza di quanto accade nell’uomo, si manifesta molto precocemente e l’iperglicemia sembra essere presente soltanto nel maschio, ciò che non è il caso dell’uomo (Kelbig et al. 1995).

Difetti visivi

Esistono diverse importanti differenze nel sistema visivo del topo e dell’uomo e derivano soprattutto dal fatto che il topo è un animale prevalentemente notturno. Alcune delle maggiori differenze riguardano la densità dei coni (necessari alla visione dei colori), l’assenza di una fovea (per l’acuità visiva) nella retina del topo, che però possiede un’alta densità di bastoncelli (necessari alla visione notturna). La presenza di 2 (e non 3 come avviene nell’uomo) pigmenti nel topo ed i diversi picchi di assorbimento degli stessi nell’uomo e nel topo contribuiscono a rendere scarsamente rilevante il modello murino per le malattie visive. I topi mutanti per il gene della rodopsina (un pigmeto visivo) non presentano retinopatia severa come invece accade nell’uomo (Jacobs et al. 1991).

Distrofia muscolare

Nell’uomo la distrofia muscolare di Duchenne (DMD) è una patologia recessiva legata alla mutazione di un gene (gene per la distrofina) sul cromosoma X. Nell’uomo la DMD si manifesta precocemente (di solito entro i 5 anni d’età) con una rapida degenerazione muscolare. Essendo che si tratta di un disordine legato al cromosoma X, è più frequente nei maschi. Nel topo il gene omologo per la distrofina non si trova sul cromosoma X. La sua alterazione da’ origine invece ad una malattia autosomica recessiva le cui caratteristiche differiscono dalla DMD dell’uomo: si manifesta nel topo entro 2 settimane dalla nascita ed è generalmente letale a 6 mesi dall’esordio (Cooper 1989). Considerando la differenza nella durata della vita tra le 2 specie, i segni di malattia nel topo si presentano più precocemente. I danni istologici riscontrati nelle cellule muscolari del topo sono di grado molto maggiore rispetto a quelli presenti nell’uomo, inoltre, mentre la DMD umana ha un’ origine miogena, quella del topo sembra essere invece di origine neurogena. Un secondo modello murino di distrofia muscolare mima la natura recessiva X-linked della DMD umana, tuttavia vi sono notevoli differenze nella patogenesi delle 2 malattie: a differenza di quanto accade nell’uomo, i giovani topi recuperano, dopo un’iniziale fase di necrosi, la funzionalità muscolare, rimanendo a lungo esenti dai sintomi della malattia (Daingain e Vrbova 1984). Aggiungendo anche le differenze anatomiche nel posizionamento dei gruppi muscolari nell’uomo e nel topo, si capisce quanto possa essere limitato l’utilizzo di tali modelli anche nella determinazione dei dettagli meccanici legati alla malattia, a loro volta collegati allo sviluppo di nuovi farmaci (Elbrink et al. 1987).

Il gene Hrpt del topo

Una delle prime mutazioni generate attraverso la tecnica del gene targeting nelle cellule staminali embrionali riguarda questo gene. Nell’uomo l’inattivazione del gene omologo è alla base di una grave patologia (sindrome di Lesch-Nyhan). Nel topo l’inattivazione di tale gene non causa alcuno dei sintomi di tale malattia (Kuehn et al. 1987, Finger et al. 1988), verosimilmente poiché nel topo esiste una ridondanza funzionale, un altro gene che potrebbe supplire all’inattivazione di Hrpt (Wu e Melton 1993). Tuttavia anche il doppio knockout per entrambi i geni continua a non presentare alcun evidente fenotipo patologico (Engle et al. 1996, Wu et al. 1994).

Gli esempi descritti sopra si riferiscono ovviamente a quei casi in cui le differenze (fenotipi) sono evidenti e per le quali a volte se ne è anche identificata almeno parzialmente la natura. Che dire di tutto ciò che non conosciamo? Stiamo studiando la patologia umana nel topo o piuttosto stiamo studiando una patologia del tutto diversa che assomiglia soltanto in modo superficiale a quella umana ricapitolandone parzialmente i segni clinici e/o i riscontri laboratoristici?

I topi geneticamente modificati senza fenotipi evidenti o con fenotipi del tutto inattesi sono casi molto frequenti, tenendo anche conto del fatto che c’è la tendenza a non pubblicare i risultati negativi, un’analisi dei dati in letteratura potrebbe sottostimare l’entità del problema (Barbaric et al. 2007).

Un altro grande limite dei modelli animali GM è legato al fatto che raramente le patologie dipendono unicamente dall’alterazione di un singolo gene ma sono quasi sempre multifattoriali. Ad esempio Stingl et al. (2009) in una revisione riguardante 20 anni di ricerca sull’ipertensione su modelli animali GM:

In the 1990’s, genetically modified animals (GMO) were considered to be the key to solving this problem of high complexity (hypertension). However, until now, although a few approaches have shown that old, well-known drugs have a positive effect (decrease of blood pressure) on such animal models of hypertension, no approach has appeared in the literature of this area of research which might indicate a direct connection between GMO and a therapeutic strategy to treat or prevent this type of hypertension in humans. Instead, criticism of the GMO approach has accumulated in the last years, arguing that it is misleading as this disease does not have a monogenic cause and so complementary regulatory mechanisms could prevent the true identification of the function of the modified genes. Furthermore, the technology is best developed in mice, whose physiology of blood pressure is different from that of humans.

E ancora

The extrapolation from animal experiments to humans must be considered with much more caution. Today, it can no longer be assumed that every gene that plays a role in hypertension in an animal is also relevant in humans.

Anche Bhogal e Combes (2006) mettono in discussione la rilevanza dei modelli murini GM per le patologie umane:

It should be recognized that the generation of GA mice has often confused, rather than improved, our understanding of the genetic basis of human diseases. The large numbers of only partly-relevant models available for many diseases have complicated the meaningful extrapolation of the information they provide to human medicine. There is an urgent need to re-evaluate GA mice as models of human disease, to take into account the availability of alternative models based on studies on lower organisms, normal and diseased human cells, and the increasingly availability of other sources of human information of direct relevance.

Some studies in GA mice have been less informative than the corresponding investigations with less-complex organisms and cell culture systems. This is particularly true for mouse models developed by using forward genetics, where an undefined number of mutations may have contributed to an overall phenotype which resembles a human disorder, but which may share few, if any, of the underlying biochemical or genetic causes of the respective human disorders. The relevance of many transgenic mouse models can be questioned on the basis that, even if a species gene homologue has the same function and expression patterns and levels in humans and mice, all the remaining components of the biochemical pathway must be equally represented in the surrogate animal, if relevant mouse models of human diseases are to be created within a laboratory setting.

Gli stessi autori spiegano come a volte degli organismi relativamente meno complessi quali gli invertebrati, possano dare più informazioni rispetto a quanto possano fare dei modelli più complessi, come ad es. i topi o altri mammiferi, la cui complessità è comunque differente da quella umana:

In view of the limitations of GM mice in the modeling of human diseases in ways that have resulted in many effective cures, and because some of the genes involved have been conserved in evolution, the possibility of undertaking at least preliminary studies in organisms such as C. elegans (a nematode) and D. melanogaster (an insect) deserves more serious attention. Indeed, the higher gene density, often higher natural mutation rate, and relative ease with which the genomes of such organisms can be manipulated and studied, emphasizes the importance of a thorough investigation into how studies in less sentient organisms can be used to curb the increasing animal welfare burden inherent in using GA mice. Of course, these invertebrate organisms do not display the complexity of the human body. However, the above attributes, together with the much lower gene duplication rates in these lower organisms, means that functional abnormalities due to gene mutants or knockouts of the target gene will have a reduced likelihood of being rescued by other genes. This simplifies the process of assigning gene function, which, in mice, is complicated by the prevalence of gene duplication and gene compensation.

Per una visione più completa del problema dei modelli animali GM si invita a leggere anche l’articolo “modelli animali alla luce delle nuove conoscenze”.

Note
1. Per espressione ectopica di un gene si intende l’espressione di un gene con una localizzazione differente da quella normale.

Bibliografia

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Modelli animali alla luce delle nuove conoscenze

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

Già dal 1930, il moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), il pesce zebra (Danio rerio), ed il topo (Mus musculus) venivano utilizzati per studiare l’embriologia e lo sviluppo di tessuti, organi e sistemi.

A partire dagli anni ‘80 il gene targeting in organismi animali ha consentito la delezione (“knockout”) o la sostituzione (“Knockin”) di qualsiasi gene nel genoma, permettendo di indagare sull’influenza di determinati geni sullo sviluppo, morfologia, fisiologia e anche sul comportamento dell’animale.

Il gene targeting ha avuto così tanto successo nel chiarire la funzione dei geni negli animali a livello molecolare che è diventato uno strumento standard nel campo della genetica molecolare. Ora viene utilizzato per risolvere uno degli obiettivi principali dell’era post-genomica: assegnare una funzione ad ogni gene nel genoma e/o mettere a punto modelli animali di patologie umane allo scopo di valutare gli effetti di potenziali cure (Koonin 2005).

Tuttavia, l’assunzione che la funzione dei geni sia conservata tra gli organismi modello e l’uomo non è fondata.

Lynch (2009) :

The assumption that gene functions and genetic systems are conserved between models and humans is taken for granted, often in spite of evidence that gene functions and networks diverge during evolution.

Numerosi studi dimostrano che la funzione delle proteine omologhe non rimane necessariamente la stessa nel corso dell’evoluzione (Adamska et al. 2007, Anan et al. 2007, Averof et al. 1995, Brainford et al. 2000, Chen et al. 2004, Emili et al. 1994, Falciani et al. 1996, Fondon e Garner 2004, Gelent e Carroll 2002, Gerber et al. 1994, Gremer e Carroll 2000, Hanks et al. 1998, Hsia e Mc Ginnis 2003, Hyman et al. 2003, Kellerer et al. 2006, Li et al. 2007, Lohr et al. 2001, Park et al. 1998, Prager e Wilson 1975, Punzo et al. 2004, Ranganaykulu et al. 1998, Ronshangen et al. 2002, Stolt et al. 2004, Tanay et al. 2005, Tuch et al. 2008, Lynch et al. 2008, Lynch 2009).

Inoltre, le modificazioni delle reti di regolazione genica nel corso dell’evoluzione sono mediate dalla regolazione e dall’espressione genica (Carroll 2005a, Carroll 2005b, Wagner e Lynch 2005, Lynch e Wagner 2008, Wagner e Lynch 2008).

Coleman (1992):

We are, of course, largely products of our genomes, but the genome is not everything. A caterpillar and a butterfly are genomically identical, but are anatomically and physiologically distinct. It is not just the genome per se that dictates what and who we are, but how that genome is expressed. So although mice and humans are apparently at least 95% identical at the genomic level, this does not prevent our respective phenotypes from being different.

Lynch (2009):

Functional divergence in genes and regulatory networks accumulate during evolution. This suggests that a fundamental assumption of comparative genomics and biomedical studies, i.e., that gene functions are conserved between model organisms and humans, may be too simplistic. Indeed, beyond case-by-case studies and anecdotal evidence, there have been few systematic examinations to verify the assumption of functional conservation between models and humans. Examples of functional divergence, however, have received little attention within the biomedical community, despite a growing number of studies finding that changes in protein function may be common during mammalian evolution.

Da quanto emerge dai più recenti studi le modificazioni nella regolazione genica sarebbero i motori principali dell’evoluzione animale, molto più di quanto lo sia il numero e la sequenza di geni codificanti proteine (Levine & Tijan, 2003; Carol, 2005; Taft et al.,2007, Boffelli e Martin 2012). E’ probabile che nella maggior parte dei casi le differenze nei meccanismi molecolari associati con le risposte specie-specifiche degli animali (ad es. in farmacologia o per la suscettibilità a determinate patologie) siano al livello di regolazione genica.

Regolazione di promotori ed enhancers, fattori epigenetici, RNA non codificanti (miRNA) sono alcuni dei possibili fattori implicati nelle differenze tra le diverse specie animali rispetto alle risposte a determinati stimoli.

coleman 2002

Da Coleman (2002)

Fattori epigenetici

I fattori epigenetici descrivono tutte quelle modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA. Dunque si definiscono epigenetici quei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo. Benché questi cambiamenti vengano spesso tramandati alle diverse generazioni cellulari attraverso la mitosi e in molti casi attraverso la meiosi, non sono permanenti, ma possono essere cancellati o modificati in risposta a diversi stimoli, inclusi i fattori ambientali. Tra i più importanti fattori epigenetici citiamo la metilazione del DNA, la struttura della cromatina, la modificazione post-traduzionale degli istoni e l’utilizzo delle varianti istoniche.

Ad esempio le rilevanti differenze riscontrate nelle abilità cognitive dei primati non umani e dell’uomo sarebbero dovuti in gran parte a differenze epigenetiche, ovvero nella metilazione del DNA in specifiche aree dell’encefalo. Lo stesso può dirsi in merito alle differenze riscontrate rispetto la suscettibilità a determinate patologie neuro-degenerative, psichiatriche, nonché al cancro (Zeng et al. 2012, Shulha et al. 2012).

Micro RNA (miRNA)

Scoperti soltanto negli anni 90, i microRNA (o miRNA) sono piccole molecole endogene di RNA non codificante, a singolo filamento, di 20-23 nucleotidi. Sono coinvolti nella regolazione dell’espressione genica. Sembra che le modificazioni nella regolazione dei miRNA siano legate all’evoluzione della complessità e diversità animale. L’evoluzione dei miRNA animali è un processo altamente dinamico: persino tra le specie affini esiste un’alta variabilità nel repertorio e nell’espressione dei miRNA (Berezikov 2011). Il tasso di accumulo di nuovi miRNA nel corso dell’evoluzione dei mammiferi è relativamente alto. Visto che anche un piccolo cambiamento nella sequenza di nucleotidi può avere rilevanti conseguenze dal punto di vista funzionale, i miRNA sono molecole dotate di un altissimo potenziale evolutivo (Chen & Rajewsky 2007).

Considerevoli evidenze dimostrano che i miRNA sono implicati nella regolazione di importantissimi processi fisiologici tra cui proliferazione e differenziazione cellulare, apoptosi (Bartel et al. 2004, Koufaris et al. 2012), risposta immunitaria, metabolismo, reazione a farmaci ed agenti tossici, risposta allo stress cellulare (Yokoi & Nakajima, 2011, Lema & Cunningham, 2010).

Nuovi miRNA vengono continuamente acquisiti nel corso dell’evoluzione (Grimson et al.,2008; Wheeler et al.,2009). Il repertorio di miRNA differisce anche tra le specie affini e persino tra diversi ceppi o razze appartenenti alla medesima specie ad es. tra specie sorelle di nematodi (de Wit et al.,2009), uomo e scimpanzé (Berezikov et al.,2006) e tra diversi ceppi di topi (Linsen et al.2010).

Koufaris et al. (2012) sottolineano l’importanza dei miRNA nel determinare differenti risposte in diverse specie in tossicologia:

“An altered targetome would mean that an observed miRNA deregulation following toxic exposure or cell stress may result in different phenotypic consequences in different species ”.

E ancora :

“We are suggesting that species-differences in miRNA regulation, function, and repertoire can act to attenuate or amplify the toxic effects on an organism of exogenous exposures. This hypothesis is in agreement with both the dynamic nature of miRNAs during animal evolution and with their important toxicological functions”.

Riassumendo, i motivi per cui i sistemi viventi possono manifestare risposte diverse agli stessi stimoli sono differenze rispetto:

  • Presenza di determinati geni. Geni possono essere persi o acquisiti durante l’evoluzione.
  • Alterazione di geni o cromosomi (delezioni, inserzioni, inversioni, duplicazioni, varianti in numero di copie, SNPs)
  • Differenze rispetto le forme di uno stesso gene (geni ortologhi)
  • Presenza di pseudogeni, ovvero geni che hanno perso la loro funzione nel corso dell’evoluzione
  • Proteine differenti (quindi derivanti da geni differenti) potrebbero svolgere la medesima funzione
  • Trasferimento orizzontale di geni
  • Splicing alternativo
  • Vecchi geni possono acquisire nuove funzioni e la stessa funzione può essere svolta da geni diversi
  • I geni possono essere regolati ed espressi in modo diverso in relazione agli stimoli ambientali, gli influssi epigenetici ed i miRNA
  • Differenze nelle reti di regolazione genica
  • Cambiamento dei profili di espressione genica
  • Differenze rispetto le proteine, l’attività o l’interazione delle stesse
  • Differenze rispetto l’organizzazione dell’organismo nella sua globalità (l’uomo ed il topo sono organismi completi ma la loro integrità è organizzata in modo differente)
  • Differenze per quanto riguarda l’esposizione ai fattori ambientali
  • Storia evolutiva

Gli organismi viventi sono sistemi complessi e come tali sono dotati di proprietà peculiari, tra cui, importantissime:

  • La robustezza, ovvero la tendenza al mantenimento dell’omeostasi nonostante le perturbazioni che tenderebbero a cambiare le condizioni del sistema. La robustezza dei sistemi biologici è determinata da quattro fattori chiave: il controllo del sistema, cioè l’esistenza di segnali d’allarme che modificano la risposta biologica in caso di necessità; la ridondanza, ovvero l’esistenza di più meccanismi parzialmente sovrapposti che raggiungono il medesimo obiettivo, nel caso in cui il meccanismo principale sia stato compromesso; la modularità, che limita i danni al modulo colpito, non permettendone l’espansione; la stabilità strutturale, che consente la variazione di alcuni parametri senza compromettere la funzionalità del sistema.
  • Le proprietà emergenti, ovvero proprietà inspiegabili sulla base delle leggi che governano le componenti del sistema prese singolarmente. Esse scaturiscono da interazioni non-lineari tra le componenti stesse.

Un approccio di tipo riduzionistico sarebbe l’unico possibile attraverso il modello animale. Tuttavia il fatto che l’animale sia un sistema complesso, e complesso in modo diverso rispetto all’uomo, ci impedisce di fare questo tipo di ragionamento. A questo proposito, van Regenmortel (2004) fa notare:

“Most human diseases result from the interaction of many gene products, and we rarely know all of the genes and gene products that are involved in a particular biological function. Nevertheless, to achieve an understanding of complex genetic networks, biologists tend to rely on experiments that involve single gene deletions. Knockout experiments in mice, in which a gene that is considered to be essential is inactivated or removed, are widely used to infer the role of individual genes. In many such experiments, the knockout is found to have no effect whatsoever, despite the fact that the gene encodes a protein that is believed to be essential. In other cases, the knockout has a completely unexpected effect. Furthermore, disruption of the same gene can have diverse effects in different strains of mice. Such findings question the wisdom of extrapolating data that are obtained in mice to other species. In fact, there is little reason to assume that experiments with genetically modified mice will necessarily provide insights into the complex gene interactions that occur in human.”

In conclusione, alla luce di quanto emerge dalle nuove conoscenze, perlopiù scaturite nel corso dell’era post-genomica, vi è perciò la necessità di ridimensionare le aspettative riguardo la predittività dei modelli animali, compresi quelli geneticamente modificati o “umanizzati”.

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Primati e sperimentazione animale: modelli ideali?

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

Tra i Primati non umani si annoverano le specie animali più vicine all’uomo dal punto di vista filogenetico. In particolare con gli scimpanzé condividiamo il 98,7% dei geni, contro l’80% di corrispondenza con il topo (Chimpanzee Sequencing and Analysis Consortium 2005, Asif et al. 2002). Ciò ha fatto si che gli scimpanzé ed altri Primati vengano considerati modelli ideali ed irrinunciabili nello studio delle patologie umane e delle reazioni a farmaci o vaccini.

VanDeberg e Zola (2005): “As the closest living relative of humans, the chimpanzee holds a unique place in biomedical research. Several major medical advances have been possible only through research with chimpanzees.”

Ma si tratta realmente di modelli ideali? I primati non umani sono davvero così indispensabili nello studio delle patologie umane e per lo sviluppo delle relative cure?

Recenti revisioni sistematiche rivelano che il ruolo degli scimpanzé nello studio dell’epatite C (Bailey 2010), dell’ AIDS (Bailey 2008) e del cancro (Bailey 2009) è sovrastimato e che il contributo dei primati alla ricerca medica è discutibile (Knight 2007, 2008). La vicenda del TGN1412, un farmaco (anticorpo monoclonale) che aveva dato ottimi risultati anche sui Primati ma che nel 2006 ha quasi ucciso i volontari durante la I fase clinica (Eastwood et al. 2010), dovrebbe farci riflettere sulla possibilità di estrapolare dei risultati da una specie all’altra.

Riportiamo qui sotto una tabella che illustra soltanto alcune note differenze tra gli esseri umani e le scimmie antropomorfe per quanto riguarda le più importanti condizioni mediche. La presente lista esclude le condizioni patologiche spiegabili in base a differenze anatomiche, ad es. vene varicose, doglie del parto, scoliosi, emorroidi, ernie, ecc. (da Varki e Altheide 2005).

scimmie differenze Varki2000 Olson e Varki 2003

Come si può notare vi sono accertate differenze per quanto riguarda quelle patologie che costituiscono importanti cause di morte o malattia nell’uomo: AIDS, epatite B e C, malaria, infarto del miocardio, influenza A. Non sono mai stati inoltre osservati nelle scimmie antropomorfe, sia in cattività, che allo stato libero, condizioni patologiche comuni invece nella specie umana, quali ictus ischemici, morbo di Alzheimer, carcinomi, artrite reumatoide ed altre malattie autoimmuni, endometriosi, tossiemia gravidica, aborto spontaneo per aneuploidia fetale, asma bronchiale, psicosi maggiori.

Almeno una ventina di geni collegati ai tumori umani ed implicati nella genesi dei tumori sono significativamente diversi negli scimpanzé (Bertranpetit et al.2006). Ma non si tratta soltanto di differenze nella sequenza di geni infatti come affermano Ahmed et al. 2007:

“a complex pattern of subtle variances and a few large-scale changes on different levels of chromosome organisation, gene structure, post-transcriptional and post-translational modifications to functional changes in protein structures is responsible for the wholesale changes in carcinogenicity between humans and chimpanzees”

Anche Gagneus e Varki (2001) avevano precedentemente colto il problema:

“The (human chimp) differences include ‘cytogenetic differences, differences in the type and number of repetitive genomic DNA and transposable elements, abundance and distribution of endogenous retroviruses, the presence and extent of allelic polymorphisms, specific gene inactivation events, gene sequence differences, gene duplications, single nucleotide polymorphisms, gene expression differences, and messenger RNA splicing variations”.

Altre rilevanti differenze si trovano nei geni per le proteasi, molte delle quali sono coinvolte nella regolazione immunitaria (Puente et al. 2005).

Tra le più note differenze tra il genoma dello scimpanzé e quello umano vi sono i geni codificanti per il sistema MHC-HLA (sistema di istocompatibilità – alla base della regolazione immunitaria): sembra che non vi siano alleli in comune (Cooper et al. 1998).

L’ 80% delle proteine ortologhe1 differisce tra gli umani e gli scimpanzé. Tra queste vi sono anche delle proteine che sono legate al cancro al seno (Glazko et al. 2005). Il 6-8% degli esoni2 ortologhi mostrano delle notevoli differenze nello splicing: ciò influisce su molte funzioni tra cui espressione genica, trasduzione del segnale, morte cellulare, sistema immunitario e quindi sulla suscettibilità a determinate malattie, tra cui il cancro (Calarco et al. 2007).

Inoltre sembrerebbe che le differenze tra uomo e primati per quanto riguarda le funzioni cognitive e la suscettibilità alle patologie neurodegenerative siano legate soprattutto a fattori epigenetici3

Hennady et al. (2012):

“Coordinated epigenetic regulation via newly derived TSS chromatin could play an important role in the emergence of human-specific gene expression networks in brain that contribute to cognitive functions and neurological disease susceptibility in modern day humans.”

Anche secondo Zeng et al. (2012) i fattori epigenetici sono alla base delle differenze tra uomo e primati nella suscettibilità a diverse patologie.

Uno studio di Arora et al. (2009) analizzò circa 10.500 geni in diversi organi umani e di scimpanzé: il 34% mostrò diversi livelli di espressione nel cervello, il 25% nel fegato, il 33% nel rene, il 35% nel cuore ed il 62% nel testicolo.

La differenza nell’espressione di un singolo gene può avere delle conseguenze molto importanti: ad es. il gene per il recettore NKp44, (un recettore su un particolare tipo di cellule immunitarie) è 5 volte più espresso nello scimpanzé che nell’uomo. Tale recettore è coinvolto nel riconoscimento e nell’uccisione delle cellule tumorali o infettate da virus (tra cui HIV-1). Il fatto che negli scimpanzé l’infezione da HIV-1 abbia normalmente un decorso benigno potrebbe essere in parte spiegato da tale differenza nell’espressione genica (De Maria et al. 2009).

E’ molto probabile che la variazione interspecifica dell’espressione di un singolo gene che codifica per una determinata proteina (inhibitory sialic acid-recognising Ig-superfamily lectins – Siglecs) abbia rilevanti conseguenze sulla risposta immunitaria verso molti patogeni. Ad es. Soto et al. (2010) evidenziano come alcuni dei geni che codificano per queste proteine siano meno espressi nell’uomo che nello scimpanzé. Sembra che ciò possa in parte spiegare le differenze tra uomo e scimpanzé nella risposta immunitaria verso HIV e virus dell’epatite C e predisponga l’uomo ad un’ iperattività immunitaria, a sua volta legata a patologie autoimmuni (come artrite reumatoide e psoriasi) o all’asma.

Bailey (2011):

“Assertions that the use of chimpanzees to investigate human diseases is valid scientifically are frequently based on a reported 98–99% genetic similarity between the species. Critical analyses of the relevance of chimpanzee studies to human biology, however, indicate that this genetic similarity does not result in sufficient physiological similarity for the chimpanzee to constitute a good model for research, and furthermore, that chimpanzee data do not translate well to progress in clinical practice for humans. Leading examples include the minimal citations of chimpanzee research that is relevant to human medicine, the highly different pathology of HIV/AIDS and hepatitis C virus infection in the two species, the lack of correlation in the efficacy of vaccines and treatments between chimpanzees and humans, and the fact that chimpanzees are not useful for research on human cancer. The major molecular differences underlying these inter-species phenotypic disparities have been revealed by comparative genomics and molecular biology — there are key differences in all aspects of gene expression and protein function, from chromosome and chromatin structure to post-translational modification. The collective effects of these differences are striking, extensive and widespread, and they show that the superficial similarity between human and chimpanzee genetic sequences is of little consequence for biomedical research. The extrapolation of biomedical data from the chimpanzee to the human is therefore highly unreliable, and the use of the chimpanzee must be considered of little value, particularly given the breadth and potential of alternative”.

Note

1 Proteine ortologhe: proteine che svolgono la stessa funzione in organismi diversi

2 Esone: parte del gene (eucariotico o di archeobatteri) che viene trascritta in RNA, insieme agli introni. Successivamente, mediante un processo definito splicing, gli introni vengono rimossi, mentre gli esoni vengono saldati negli RNA maturi e tradotti in una sequenza di amminoacidi.

3 Fattori epigenetici: modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la sequenza del DNA. Si definiscono epigenetici quei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo, ad es. metilazione del DNA, modificazioni delle proteine che legano il DNA, ecc.

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Modelli animali e predittività: scienza o dogma?

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

L’utilizzo degli animali nella ricerca è un argomento molto controverso. I sostenitori della sperimentazione animale affermano che tale pratica è essenziale nello sviluppo di nuove cure e per la prevenzione delle malattie umane (Brom 2002, Festing 2004), che le maggiori conquiste della medicina sono state possibili soltanto grazie alla s.a. (Pawlik 1998), che la complessità dell’organismo umano può essere modellata soltanto dalla complessità dell’animale (Kjellmer 2002). Affermano persino che il progresso medico si fermerebbe se per qualche motivo la s.a. dovesse subire delle restrizioni o dovesse essere bandita, con conseguenza catastrofiche (Osswald 1992).

Molto frequenti sono anche gli slogan del tipo “meglio sacrificare dei topi che tuo figlio” oppure “la s.a. un giorno potrebbe salvarti la vita” o ancora le considerazioni a posteriori “se il talidomide fosse stato testato sugli animali gravidi avremmo certamente evitato il disastro”.

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Tutte queste affermazioni implicano che l’animale sia in grado di predire la risposta dell’uomo a farmaci, sostanze tossiche e malattie e che i risultati ottenuti da una specie possano essere estrapolati ad un’altra, per analogia.

Ciò viene anche talvolta dichiarato esplicitamente, come ad es. da Yamada (2007) :

The potential carcinogenic hazard of chemical agents to humans is presently based primarily on the results of long-term animal bioassays. The validity of this toxicologic approach to human risk assessment depends on two fundamental assumptions. First, the results of an animal bioassay are directly applicable to humans (interspecies extrapolation). Second, the doses used in an animal bioassay are relevant for estimating risk at known or expected human exposure levels (dose extrapolation).

E’ ragionevole aspettarsi che simili inequivocabili affermazioni ripetute da chiunque sostenga la s.a. ed avvallate anche da eminenti scienziati, siano supportate da evidenze scientifiche.

Vi sono certamente degli esempi di casi specifici in parte consistenti con tali affermazioni, per esempio nessuno vuole negare il ruolo che hanno avuto, specie in passato, gli animali nella ricerca, ad es. nell’identificazione dell’insulina o nella scoperta del potenziale d’azione. Nessuno nega che moltissimi premi nobel hanno riguardato la ricerca su animali e che questa possa in alcuni casi risultare utile ad arricchire il bagaglio dell’esperienza e della conoscenza scientifica globale. Tuttavia il fatto che le più grandi conquiste della medicina abbiano coinvolto gli animali non è condizione sufficiente a provare quanto affermato dai sostenitori della s.a., allo stesso modo di come gli altrettanto numerosi studi su animali che non hanno portato ad alcuna scoperta medica non ci autorizzano a definire la s.a. una pratica completamente inutile. Sostenere il contrario significherebbe assumere erroneamente che la probabilità (sconosciuta!) di avere una conquista medica dato l’utilizzo di animali, sia equivalente alla probabilità (molto alta!) che via sia un coinvolgimento degli animali in qualche tappa di un lavoro che ha portato ad una conquista medica. E’ evidente che si tratta di una fallacia (trasposizione del condizionale).

I modelli animali sono predittivi per l’uomo?

I test animali non sono soggetti a procedure formali di validazione, come invece avviene per i metodi non animali – in vitro ed in silico – ai fini dell’accettazione in ambito regolatorio. Quindi l’unico modo per rispondere a questa domanda è servirci di dati già in nostro possesso, affidandoci alle analisi retrospettive. Le revisioni sistematiche ci permettono di trarre preziose informazioni sull’utilità clinica degli animali nella ricerca. Possiamo confrontare i dati derivanti da diverse specie animali con i dati derivanti dall’uomo e/o indagare sulla riproducibilità e ripetibilità dei test animali. Grazie ai valori di sensibilità e specificità possiamo dedurre i valori predittivi ed i rapporti di verosimiglianza, che nell’insieme ci permettono di valutare la rilevanza di una determinata metodologia. Gli studi retrospettivi di questo tipo costituiscono una vera e propria procedura di validazione, essendo ufficialmente adottati anche da ECVAM per validare le metodologie non animali (in vitro o in silico) ai fini regolatori (Worth e Balls 2002, Worth e Zuang 2004).

Ci si aspetterebbe di reperire in letteratura una grande quantità di revisioni sistematiche che supportino la predittività e la validità dei modelli animali. In realtà invece i lavori di questo tipo sono relativamente scarsi, spesso incompleti e sono ben lungi dal giustificare le asserzioni dei sostenitori della s.a. Addirittura, alla luce delle revisioni sistematiche e dai lavori presenti attualmente in letteratura, sembrerebbe emergere l’infondatezza delle affermazioni dei sostenitori della s.a. Ciò che legittima in pieno la messa in discussione della validità del modello animale e la conseguente necessità di un’urgente revisione.

Varga et al. (2010) : “The predictive validity of an animal model can be tested by systematic examination of the data from animal model studies, and by comparing these data with reference data obtained in humans. One way of doing this would be to follow the validation process for alternative methods. […] It is precisely this type of retrospective analysis, which, in recent studies, has helped to identify inconsistencies in animal and human studies”

Hartung (2008) a proposito di predittività del modello animale in tossicologia: “A prediction is acceptable if its uncertainty is acceptable” ovvero tutto dipende dal grado di incertezza che siamo disposti a tollerare. Nello stesso articolo parla di valori di incertezza estremamente alti e conclude con una domanda provocatoria “Does this represent an acceptable uncertainty?” In un altro articolo più recente Hartung (2009) parla della totale inadeguatezza degli attuali test tossicologici condotti su animali.

Hackman e Redelmeier (2006): “We believe these findings (that only about a third of highly cited animal research translated at the level of human randomized trials) have important implications. First, patients and physicians should remain cautious about extrapolating the findings of prominent animal research to the care of human disease. Second, major opportunities for improving study design and methodological quality are available for preclinical research. Finally, poor replication of even high-quality animal studies should be expected by those who conduct clinical research.”

Shanks e Greek (2009) fanno notare come scarsi valori di concordanza tra modelli animali e riscontri clinici sull’uomo possano essere tollerati nel caso della ricerca di base e come invece siano del tutto inaccettabili quando l’animale venga utilizzato con lo scopo di predire le risposte dell’uomo, ad esempio nei test tossicologici.

Knight 2007 riporta le conclusion di 20 revisioni sistematiche riguardanti l’utilità clinica o tossicologica degli studi su animali e riscontra che I modelli animali hanno portato a delle applicazioni cliniche in soltanto 2 casi, di cui uno dubbio e conclude: “ […] the numerous cases of discordance between laboratory animal and human outcomes suggest that this premise (that laboratory animal models are generally predictive of human outcomes) may well be incorrect, and that the utility of animal experiments for these purposes may not be assured.”

Lindl et al. 2005: The outcome was unambiguous: even though 97 clinically orientated publications containing citations of the above-mentioned publications were found (8% of all citations), only 4 publications evidenced a direct correlation between the results from animal experiments and observations in humans (0,3%). However, even in these 4 cases the hypotheses that had been verified successfully in the animal experiment failed in every respect.

Revisioni sistematiche che riguardano il confronto tra modelli animali e risultati clinici esistono anche per gli studi di tossicologia, farmacologia (parametri admet), cancerogenesi, teratogenesi, studi sugli scimpanzé (che sono considerati essere i modelli più vicini all’uomo!), ictus, malattie neurodegenerative, modelli di sistema immunitario, asma, chemioterapia antitumorale, genetica delle malattie complesse (Williams et al. 2004) ed altri casi specifici. Per un quadro più completo ed ulteriori fonti si invita alla lettura del nostro articolo QUI.

Sena et al. (2010) fanno inoltre notare come la maggior propensione a pubblicare i risultati positivi, rispetto a quelli negativi o neutri, porti ad una sovrastima della concordanza tra risultati ottenuti sull’animale ed i riscontri clinici.

“Publication bias confounds attempts to use systematic reviews to assess the efficacy of various interventions tested in experiments modeling acute ischemic stroke, leading to a 30% overstatement of efficacy of interventions tested in animals.”

In conclusione le asserzioni dei sostenitori della sperimentazione animale non sono supportate da evidenze scientifiche. La reiterazione dei concetti ha evidentemente portato all’instaurarsi di un pregiudizio. Sulla base del pregiudizio di predittività vengono giustificati, legittimati e resi obbligatori anche i test tossicologici su animali per ogni nuovo farmaco, additivo o sostanza immessa sul mercato.

Concordiamo pertanto con Matthews (2008) che suggerisce:

“The scientific community can choose to deal with the current situation in one of three ways. The simplest is to replace the current statement with one which can be formally validated. This need not be a vapid platitude: there is a wealth of evidence

to support a statement such as ‘Animal models can and have provided many crucial insights that have led to major advances in medicine and surgery’. The second and most valuable course of action would be to embark on a systematic study of the use of animal models with a view to establishing the weight of evidence they provide. This would undoubtedly be a major undertaking, but it would also bring many benefits – not the least of which would be quantitative support for the claims made for animal models. The third option is simply to turn a blind eye to the continued promulgation of a statement about the importance of animal experiments lacking in logical or evidential support.”

Riferimenti bibliografici

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Shanks N., Greek R., Greek J., Are animal models predictive for humans? Philos Ethics Humanit Med. 2009; 4: 2. Published online 2009 January 15. doi: 10.1186/1747-5341-4-2

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Modelli murini e sistema immunitario

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo vi fu un enorme progresso per quanto riguarda la comprensione dei meccanismi immunitari umani, grazie ad estesi studi sull’immunità umorale e cellulo-mediata. Di particolare interesse fu lo sviluppo della teoria delle catene laterali di Ehrlich che portò poi alla descrizione dei meccanismi di interazione antigene-anticorpo. Il contributo di Elrich alla comprensione dell’immunità umorale fu riconosciuto con un premio Nobel nel 1908, condiviso con Metchnikoff, padre dell’immunologia cellulo-mediata.

Anche i lavori di Pasteur, Koch, Reed e molti altri contribuirono ampiamente alla comprensione dell’immunità umana.

Nel corso del XX secolo, con lo sviluppo dei modelli murini inbred1, si smise di focalizzarsi direttamente sull’immunità umana. E’ importante riconoscere che tali modelli murini hanno fornito delle valide intuizioni, ad esempio per quanto riguarda il ruolo del sistema di istocompatibilità nel riconoscimento da parte del sistema immunitario di cellule infettate da virus. Gli iniziali successi nell’ambito della ricerca di base hanno portato però ad un’eccessiva fiducia nei modelli murini che sono stati in seguito utilizzati per lo studio di patologie umane e reazioni a farmaci e vaccini, con risultati deludenti. Ciò è particolarmente vero per i modelli di malattie autoimmuni (von Herrath e Nepom, 2005) ed immunoterapia per il cancro (Ostrand-Rosenberg 2004), dove tra centinaia di protocolli che avevano dato risultati promettenti sui topi soltanto pochi hanno avuto applicazioni sull’uomo. Anche per quanto riguarda i modelli di malattie neurologiche i risultati sono stati deludenti (Schnabel, 2008).

Brady (2008): “The industry is littered with examples of delays, reiterations or even abandoned drug programmes arising from poor translation of animal responses to man.”provides the most common model for many aspects of the human immune system, the 65 million years of divergence has introduced significant differences between these species, which can and has impeded the reliable transition of pre-clinical mouse data to the clinic. The industry is littered with examples of delays, reiterations or even abandoned drug programmes arising from poor translation of animal responses to man.”

L’utilizzo dei modelli murini per gli studi di immunobiologia delle infezioni (ad es. malaria ed Herpes simplex) ha gravemente fuorviato i ricercatori riguardo la comprensione del controllo immunitario di questi patogeni nel corpo umano: si potrebbe ragionevolmente sostenere che l’eccessiva fiducia nei modelli murini abbia rallentato lo sviluppo di potenziali vaccini e cure per molte patologie (Khanna e Burrows 2011).

La sfiorata tragedia del TGN1412 nel 2006 ci fornisce un esempio di ciò che potrebbe accadere quando ci affidiamo ai modelli animali allo scopo di predire le reazioni dell’uomo a farmaci e vaccini (ricordiamo che l’anticorpo monoclonale in questione era risultato del tutto innocuo, anche a dosaggi elevati, nel corso dei precedenti test su primati non umani, che sono considerati i modelli più vicini all’uomo) (Suntharalingam et al. 2006).

Jacques Banchereau, a capo della Baylor Institute for Immunological Research a Dallas, Texas: “Studies on mice are very elegant and beautiful, but they aren’t reflecting the needs of the [human] population” (Leslie 2010).

Il fatto che i risultati ottenuti sui modelli murini siano soltanto raramente applicabili all’uomo può essere spiegato da diversi fattori: primo, la maggior parte degli studi sono effettuati su ceppi inbred, fatto che può falsare la risposta immunitaria e secondo, uomini e topi mostrano numerose differenze sia nell’immunità innata che in quella specifica, tra cui le sottopopolazioni dei linfociti T, i recettori per le citokine, differenziazione Th1/Th2, Toll-like receptors e moltissime altre (Mestas e Hughes 2004).

Mestas and Christopher 2004 immunology

Mestas and Christopher 2004 immunology2

Tabella 1. Differenze note tra il sistema immunitario murino ed umano (Mestas e Hughes 2004)

La complessità del sistema immunitario umano (Brady 2008)

La complessità del sistema immunitario umano (Brady 2008)

Per cercare di ovviare a tali inconvenienti e di rendere l’animale maggiormente predittivo si è diffuso l’utilizzo di modelli murini “umanizzati” (Legrand et al. 2009). E’ però importante far notare che per poter eventualmente utilizzare tali modelli dovremmo prima conoscere il sistema immunitario umano, in particolare dovremmo essere in grado di definire quale sia la “situazione normale”. In particolare a tal proposito Davis 2008 afferma:

“Although promising, it should not be assumed that such mice are equivalent to a human immune system in any respect unless it is demonstrated to be so by a variety of objective measures. Many of these can come only from developing metrics of human immune function.”

Ciò solleva un’ importante ma trascurata questione riguardante l’immunologia: qual è il metro, il criterio per definire un sistema immunitario normale o sano? La risposta è che non lo sappiamo. I cardiologi possono specificare i livelli ottimali di colesterolo LDL, HDL e dei trigligeridi, ma gli immonologi non riescono a fare la stessa cosa per le citochine, i messaggeri chimici che innescano processi di maturazione, divisione e attacco delle cellule immunitarie.

Se un numero sufficiente di laboratori collaborasse per analizzare le migliaia di campioni di sangue raccolti quotidianamente negli Stati Uniti o nel mondo, una sorta di “Progetto Immunologia Umana”, si potrebbero raccogliere velocemente ed esaminare dati provenienti da un vastissimo numero di persone sane e malate. In 5-10 anni, potremmo avere la prima approssimativa scala di riferimento della funzione immunologica (Davis 2008).

Ma nonostante la situazione, si continua ad investire sui modelli murini. Vi è una certa resistenza al cambiamento, perlopiù legata a motivazioni lontane da quelle scientifiche.

Khanna e Burrows: “In spite of these significant limitations, we continue to invest huge resources in conducting immunology studies using transgenic murine models, and many of our colleagues often feel highly defensive when questioned on the validity of their model systems. One comment we often hear from our colleagues is that it is difficult to provide mechanistic insights with human immunology studies that are essential to publish their research in high-ranking journals.”

Sempre Khanna e Burrows: “It is very likely that such collaborative studies involving large investment will be opposed by many of our colleagues who strongly believe that innovative research emerges from small labs, and a major investment in human immunology will deplete funding for basic immunology research. They are probably correct; but how long can we justify investing millions of dollars of taxpayers’ funds on delineating the murine immune system, which in most cases has limited application for human diseases?”

Note:

1 Inbred strain: terminologia riferita ad animali di laboratorio che si sono sviluppati attraverso accoppiamenti sequenziali fratello-sorella (ovvero tra consanguinei). Solo dopo 20 generazioni possono essere dichiarati imbred. Risultano omozigoti per circa il 98% dei loci genici, ciò consente ad es. di fare trapianti senza rigetto tra membri dello stesso ceppo inbred.

Bibliografia

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L’eccessiva fiducia nei modelli animali potrebbe danneggiare la ricerca biomedica e la salute umana

(Preso da “Critica Scientifica alla Sperimentazione Animale”)

Il modello animale nella ricerca scientifica rappresenta al più una fonte euristica di dati, uno strumento a volte utile (comunque costoso e spesso sostituibile) per generare delle ipotesi nella ricerca di base. Ipotesi che comunque dovrebbero fungere soltanto da innesco per la ricerca focalizzata sull’uomo, che deve seguire in ogni caso.

L’eccessiva fiducia nell’animale, soprattutto quale CAM (causal analog model, ovvero come modello predittivo) nello studio di patologie umane, reazioni a farmaci e vaccini, ecc. rischia però di far perdere di vista il principale beneficiario della ricerca biomedica: l’uomo in tutta la sua complessità. Come osservano Khanna e Scott (2011) a proposito di sistema immunitario e ricerca sui modelli murini: per quanto tempo possiamo andare avanti ad investire denaro pubblico per effettuare studi che non porteranno mai a risultati concreti in termini di applicazioni cliniche? Hartung (2009) ha più volte sottolineato nel suo articolo pubblicato sulla rivista Nature “Tossicologia per il XXI secolo” che il modello animale è del tutto inadeguato per la valutazione del rischio tossicologico e che urge un cambio di direzione verso l’impiego di metodologie avanzate in vitro ed in silico, che potrebbero attualmente fornire risultati più sicuri ed affidabili. Ciò vale soltanto a titolo di esempio giacché gli esempi di fallacia dell’animale CAM sono sempre più numerosi (vedi ad es. qui).

Se l’obiettivo è il progresso della medicina in termini concreti è necessario focalizzarsi su Homo sapiens e farlo anche in modo adeguato: è inutile sviluppare avanzati modelli informatici e complessi sistemi in vitro (es. lab on a chip e colture 3D) se si continua però ad utilizzare tessuti animali e/o si cerca di simulare i processi fisio-patologici del topo, come se fosse il topo il beneficiario della ricerca medica. Come sottolineato da Hartung (2009) l’uomo non è un topo di 70 Kg e può ricapitolare la fisiologia umana soltanto in modo molto limitato. L’eccessiva fiducia riposta nella s.a. può danneggiare seriamente il progresso biomedico ed in certi casi mettere a rischio la salute della comunità. In particolare un’eccessiva fiducia nella s.a. nell’ambito della tossicologia regolatoria e della farmacologia, la sua obbligatorietà e l’inerzia nel progresso delle tecnologie avanzate nelle fasi pre-cliniche, fanno sì che delle sostanze potenzialmente tossiche arrivino in fase clinica, ovvero all’uomo, esponendo i volontari a gravi rischi per la salute: (a questo proposito ricordiamo che oltre il 90% dei farmaci che hanno passato la fase pre-clinica fallisce attualmente nelle successive fasi cliniche per effetti tossici non previsti e/o inefficacia (dato FDA). Un farmaco può attualmente essere giudicato relativamente sicuro soltanto dopo molti anni dalla sua commercializzazione, dopo che è stato sperimentato su tutte le fasce di popolazione (farmacovigilanza): ciò dovrebbe farci intuire che in realtà il banco di prova per tutti i nuovi farmaci siamo noi (Archibald et al. 2011) e ciò lo dobbiamo sia all’inadeguatezza degli attuali studi clinici che degli studi preclinici. Questi ultimi sono basati su animali e su tecnologie in vitro non adeguate a predire la risposta in Homo sapiens in quanto tarati sul gold standard murino.

Anche tra gli individui della stessa specie, compresi gli esseri umani, le reazioni possono differire. La suscettibilità a determinate malattie, la risposta ai farmaci come la tolleranza a determinati stimoli nocivi ambientali varia a seconda dei gruppi etnici e dei sessi anche in modo significativo, tuttavia nell’ambito degli attuali studi clinici non vengono considerati tali aspetti della complessità intraspecifica. Inoltre gli studi mirati a comprendere i pathways cellulari sottostanti ai meccanismi di tossicità nell’uomo e che permetterebbero di mappare l’intero repertorio di tossici per la specie umana sono purtroppo ancora agli albori (Hartung e McBride 2011), come lo è l’applicazione dell’-omica (Li et al. 2008).

Una ricerca prevalentemente orientata sui modelli animali è in contrasto con quanto emerge dalle nuove conoscenze nell’ambito della genomica e dell’epigenetica: gli esseri viventi sono sistemi complessi e le differenze interspecifiche (tra specie diverse) non possono più essere trascurate: attualmente la ricerca biomedica opera a livelli dove anche le differenze intraspecifiche (nell’ambito della stessa specie, per etnia, sesso, ecc.) o addirittura individuali (patrimonio genetico, marcatori specifici, ecc.) diventano rilevanti. Tali differenze sono alla base della medicina personalizzata, che è il futuro della medicina (Greek et al. 2012).

Abbiamo bisogno delle conoscenze che scaturiscono da aree disciplinari quali fisica (diagnostica per immagini, TEM, fMRI, ecc.), bio-informatica, biologia molecolare, epidemiologia, ricerca in vitro con tessuti ed organi umani, (diffusione di banche di tessuti umani), tossico- genomica, farmaco- genomica, -omica in generale e medicina personalizzata. Pensiamo a quanti avanzamenti nella medicina e nella diagnostica sono stati fatti soltanto grazie al progresso nel campo della fisica: a partire dalla scoperta dei raggi X, fino alla PET (Positron Emission Tomography), alle indagini ecografiche (ad es. power o color doppler), fMRI (risonanza magnetica funzionale), spettroscopia, ecc. Pensiamo ai grandi passi avanti che sono stati fatti in medicina e nella ricerca di base grazie alle tecnologie avanzate in biologia molecolare, biochimica, genomica, ecc. e a quanti se ne potrebbero ancora fare impiegando le risorse in modo più razionale.

La ricerca basata su animali assorbe ingenti quantità di fondi ed i fondi destinati alla ricerca biomedica sono limitati: ne viene che preziose risorse vengono sottratte a settori di ricerca potenzialmente più produttivi e promettenti. La ricerca che impiega animali è d’altro canto quella che più facilmente permette di ottenere risultati puliti, lineari e standardizzati, non pone problemi di ordine legale né burocratico (come invece accade con le pratiche che utilizzano organi e tessuti umani) e pertanto garantisce pubblicazioni relativamente veloci. Ne viene che i ricercatori si ritrovano spesso a compiere studi su modelli animali anche quando potrebbero affidarsi a tecniche più moderne e rigorose dal punto di vista scientifico (Rice 2011).

Riassumendo ci sono diverse ragioni per cui la s.a. può danneggiare la salute umana (e la ricerca scientifica):

  • In primo luogo, la ricerca sugli animali in campo farmacologico e nello studio delle malattie umane (animali come CAMs) fornisce risultati di dubbia predittività per la specie umana mettendo a rischio direttamente la salute della comunità o precludendo potenziali cure che inefficaci o tossiche sui modelli animali potrebbero risultare valide se testate utilizzando adeguate tecnologie avanzate;
  • Un’eccessiva fiducia nei modelli animali fa sì che troppo spesso ci si focalizzi sui roditori dimenticando che il beneficiario dei frutti della ricerca dovrebbe essere l’uomo e non gli animali da laboratorio;
  • I fondi per la ricerca medica sono limitati e la maggior parte dei fondi viene assorbita dalla costosa ricerca basata sui modelli animali;
  • Abbiamo un numero limitato di scienziati in grado di fare ricerca medica: l’educazione di queste persone e la loro professionalità, competenza ed intelligenza vengono sprecate nella ricerca su base animale;
  • La gente soffre e muore perché la ricerca focalizzata su Homo sapiens non viene adeguatamente sviluppata e promossa, assieme alle metodologie avanzate ed agli accorgimenti che permetterebbero di migliorare concretamente la condizione dei malati: tecniche diagnostiche e di indagine (fMRI, PET, SMT, tecnologie avanzate di analisi, individuazione di biomarkers diagnostici e prognostici, medicina personalizzata, ecc.);
  • Il pregiudizio di predittività del modello animale e la conseguente falsa sicurezza che ne deriva contribuisce a ritardare la ricerca, lo sviluppo e la diffusione di metodologie avanzate maggiormente rilevanti per la nostra specie.

La ricerca basata sugli animali, specialmente se la sua funzione viene travisata e sovrastimata, potrebbe dunque danneggiare la salute umana e la ricerca sia in modo diretto che indiretto.

Bibliografia

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Validare i nuovi metodi alternativi in maniera più efficace

[Coleman R, Tsaioun K, Archibald K. A pragmatic comparison of human in vitro with animal in vivo approaches to predicting toxicity in human medicines. AltTox, March 27, 2014.]

Link: http://alttox.org/a-pragmatic-comparison-of-human-in-vitro-with-animal-in-vivo-approaches-to-predicting-toxicity-in-human-medicines/

Full Text:

Despite the best efforts of the pharmaceutical industry to weed out potentially toxic drug candidates before they reach patients, the frequency of liver and other toxicities associated with new medicines remains at unacceptable levels (Verma & Kaplowitz, 2009; Chen et al., 2011). The “best efforts” concerned still rely predominantly on studies in experimental animals, mainly rodents, dogs, and nonhuman primates. Unfortunately, drugs that cause organ toxicity in these species do not necessarily cause such effects in humans, and vice versa. These species differences are particularly dramatic in the case of liver, due to large differences in metabolism between species. For this reason it is becoming apparent that something needs to be done about the way that we identify potential human organ toxicity before exposing human subjects to experimental medicines, and there is mounting scientific evidence for the utility of human-, rather than non-human-based test methods (Krewski et al., 2009; FDA, 2012; Firestone et al., 2010; Collins, 2011).

However, despite growing enthusiasm for “humanizing” drug testing, which Safer Medicines Trust believes will reduce the human and financial burden of adverse drug reactions, this approach has been extraordinarily difficult to get established as a viable alternative. The reasons for this difficulty are various, such as the obvious difficulties of modelling the complexity of the whole organism by extrapolating from isolated parts, the fact that the regulatory authorities demand results from animal studies, and the lack of validated alternative human-based methods. While there is a degree of validity in each point, they do not represent the whole case. For example, the objections to human in vitro and in silico approaches ignore the fact that these technologies have become more sophisticated and physiologically relevant in the last decade, yet the regulatory authorities still rely on extrapolation of human safety from animal in vivo studies. Why? Mostly for historical reasons: back in the 1960s animal tests were all that were available. As to the claim that few human-based tests have achieved formal validation, here we have only half the story; the truth is that not only is the validation process, orchestrated by organisations such as ECVAM and ICCVAM, time-consuming (Mak & Perry, 2007; Leist et al., 2012), but the animal in vivo tests that we currently rely on and that (sometimes inappropriately) serve as a “gold standard comparator” for the in vitro approaches, have never themselves been subjected to such scrutiny (ECOPA, 2008). Thus, when a new test method is evaluated, there is no way of knowing what it has to improve on. And finally, we strongly believe that the best model for humans has to be human.

We would like to suggest that rather than subjecting each new test method to several years of in-depth analysis to determine whether it passes all the theoretical criteria, and perfectly matches human outcomes, as is currently the case, a more fruitful approach would be to investigate whether a range of new approaches could actually improve on the patently flawed tests that are our current standards. Safer Medicines Trust proposes that what is needed is an objective independent study comparing human in vitro and in silico approaches with animal in vivo counterparts (Coleman, 2011; Clotworthy & Archibald, 2013), an approach we term “pragmatic validation.”

THE BASIS OF A PRAGMATIC VALIDATION STUDY

While to perform such a study prospectively would take many years and be resource-intensive, there is a simpler approach, which recognises that we have a vast wealth of (theoretically) available clinical and pre-clinical information on marketed drugs, whereby we can judge just how reliable the current safety testing paradigm has proven. Safer Medicines Trust’s proposal is based on identifying a number of marketed drugs that have been judged safe and effective for use as human medicines, based on the regulatory panel of animal tests, but have subsequently gone on to cause various toxicities in patients, and pair each of these with a structurally similar marketed drug that lacks such toxicity, acting as test drug and negative control, respectively. These drugs would then be submitted for blind testing using a variety of human-tissue-based technologies to determine whether any of these tests, either alone or in combination, could provide an indication of the toxicity known to be exhibited by the test compound in human subjects. A wide range of different organ toxicities could be studied using this approach, with a variety of high-throughput and high-content technologies selected from those perceived to be among the best available, offering complementary capabilities that should maximise the chances of identifying the majority of toxicities. These would, of course, include 3D and co-culture systems, as well as broad and hypothesis-free screens, in order to test the limits and the synergies of various different types of assays.

Before embarking on such a study, which although obviating the costs of both clinical and animal studies, would still incur the expense of the in vitro studies, we are currently initiating an entirely retrospective proof-of-principle study, whose only costs will be those entailed in data analysis.

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Scienziato della GlaxoSmithKline critica su Nature i modelli animali di arteriosclerosi e dislipidemia

Animal research: too much faith in models clouds judgement

[Suckling K. Animal research: too much faith in models clouds judgement. Nature. 2008 Sep 25;455(7212):460.]

Full Text:

Your News Feature ‘Standard model’ (Nature 454, 682–685; 2008) raises issues about the use of mouse models of disease that go well beyond the field of neurodegenerative disorders. As a former head of atherosclerosis research at GlaxoSmithKline laboratories, I can attest that the situation is similar for models of atherosclerosis and dyslipidaemia.

Informed users of mouse models are well aware of their limitations in relation to human pathology, so their expectations from drug studies and the relevance of these to humans are tailored accordingly. But it seems to me that, beyond this relatively small group of practitioners, wider concerns arise.

These might be viewed as a criticism of the rigour of much of the dialogue between preclinical and clinical research. One is about overuse of the glib term “animal model of disease X”, which raises expectations and clouds proper interrogation of experiments. As you suggest, it is better to consider a mouse model as primarily one of mechanism and to make a reasoned extrapolation to humans from there.

This approach links in more closely with the current critical preoccupation with translational research. Another concern is one that permeates all science, namely the tendency to regard the model (in whatever form it is expressed) as being identical to its prototype, often coupled with the idea of a ‘complete explanation’, which is, of course, illusory.

Brain-Computer Interface su umani tramite elettrocorticografia (ECoG)

ecog

[Shenoy P, Miller KJ, Ojemann JG, Rao RP. Generalized features for electrocorticographic BCIs. IEEE Trans Biomed Eng. 2008 Jan;55(1):273-80.]

Full Text: http://homes.cs.washington.edu/~rao/gen-features-ecog-bcis-08.pdf

Questo articolo del 2008 mostra come sia possibile fare ricerca nell’ambito della Brain-Computer Interface (che ha come obiettivo principalmente il controllo neurale di protesi artificiali, di sedie a rotelle, la riproduzione artificiale di un set di parole, ecc.) utilizzando l’elettrocorticografia intracranica (detta anche iEEG o ECoG) su pazienti con epilessia intrattabile che si erano sottoposti a operazioni di neurochirurgia, non provocando dunque alcuno stress ulteriore agli stessi.

Abstract:

“This paper studies classifiability of electrocorticographic signals (ECoG) for use in a human brain-computer interface (BCI). The results show that certain spectral features can be reliably used across several subjects to accurately classify different types of movements. Sparse and nonsparse versions of the support vector machine and regularized linear discriminant analysis linear classifiers are assessed and contrasted for the classification problem. In conjunction with a careful choice of features, the classification process automatically and consistently identifies neurophysiological areas known to be involved in the movements. An average two-class classification accuracy of 95% for real movement and around 80% for imagined movement is shown. The high accuracy and generalizability of these results, obtained with as few as 30 data samples per class, support the use of classification methods for ECoG-based BCIs.