Archivi del mese: aprile 2013

9 su 10 statistiche sono prese NEL contesto

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“9 su 10 statistiche sono prese fuori dal contesto” (“Nine out of ten statistics are taken out of context”): così si chiama l’articolo di Understanding Animal Research (ma ripreso anche da Speaking of Research) contro il dato schiacciante del fallimento del modello animale nei farmaci, ricordiamo infatti che secondo la FDA, ben il 92% dei farmaci che passano i test su animali vengono scartati nelle fasi cliniche su umani perchè tossici o inefficaci.

L’articolo si basa su 4 punti principali:
1) I test su animali ci proteggono da sostanze dannose, senza avremmo ancora più sostanze tossiche
2) Il fallimento è dei test preclinici, pertanto sia animali che non-animali, ergo anche i metodi alternativi falliscono quanto i metodi animali
3) In oltre 30 anni non c’è stata una singola morte in fase 1 (a parte il disastro del 2006 in cui stavano morendo dei volontari prontamente salvati ma ora disabili)
4) Molti dei farmaci scartati passano anche alcune fasi cliniche, quindi per gli anti-SA l’uomo non sarebbe un buon modello per l’uomo?

CONFUTAZIONE DEL PUNTO 1:
Prove? Dove sarebbero le prove che le sostanze che gli animali scartano siano dannose? 
Considerando invece la minima traslazione, si può affermare con una certa sicurezza che le sostanze scartate dall’animale non saranno per forza nocive per l’uomo, anzi, non sapremo mai quanti e quali farmaci utili per curare patologie umane sono stati cestinati perchè sugli animali risultavano essere dannosi.

CONFUTAZIONE DEL PUNTO 2:
La quasi totalità dei test in vitro che si usano in fase preclinica sono con cellule animali, per test più accurati dovremmo sostituirle con corrispettive umane, non a caso la direttiva europea 2010/63/UE, afferma: “I tessuti e gli organi animali sono impiegati per lo svi­luppo di metodi in vitro”. 
Inoltre vengono usate colture di cellule 2D al posto di modelli di tessuti o cellule 3D, in grado di predire meglio le risposte umane in vivo.
Spesso poi i metodi matematici (ma non solo!), pur essendo estremamente sensibili, vengono tarati sugli animali e non sugli esseri umani.
Infine, i metodi alternativi vengono usati in maniera isolata, quando invece l’uso integrato di metodologie avanzate può superare le debolezze dei singoli test, sia per la sensibilità che per la specificità, facendo aumentare in maniera incredibile la possibilità di sostituire gli animali.

CONFUTAZIONE DEL PUNTO 3:
Qui il punto principale è il DOSAGGIO, dato che molti effetti avversi non si manifestano nelle prime fasi cliniche a causa delle dosi. 
Infatti, i livelli posologici da cui si iniziano i test nell’uomo sono di solito 1/100 della dose NOAEL (No Observed Adverse Affect Level), cioè della dose massima alla quale, nell’animale, non si sono verificati effetti collaterali di sorta. 
Il dosaggio iniziale verrà poi aumentato progressivamente, rivelando spesso anche tutti gli effetti avversi che non si erano rilevati in precedenza a causa della dose minore. 
Ciò è dimostrato dal fatto che ben l’81% delle volte gli animali non riescono a predire i gravi effetti avversi ai farmaci per l’uomo, nonostante vengano sottoposti anche a dosi elevate e per lunghi periodi, proprio allo scopo di far emergere anche i potenziali effetti collaterali rari. 
Inoltre, partire da una dose che sia più bassa di quella animale è già una conferma di per sé della mancanza di attendibilità della SA. 
Nonostante la bassa dose, comunque il TGN1412, dopo aver subito test su TOPI, RATTI, CONIGLI E SCIMMIE (qualche altro animale? La prossima volta portiamo lo zoo direttamente? Dato che diranno comunque che s’è fatta “poca sperimentazione”) ha quasi ucciso i volontari clinici su cui fu testato, che per fortuna sono sopravvissuti ma hanno riportato danni gravi e permanenti agli organi… è questo quello che si dice “sicurezza”?

CONFUTAZIONE DEL PUNTO 4:
In primo luogo, il fallimento del modello animale (sia in vivo che in vitro su cellule animali) si somma, dato che non prevede nè il fallimento dei farmaci scartati dalle fasi precliniche alla fase I, nè dalla fase I in poi.
In secondo luogo, se già differenze genetiche intra-specifiche di appena lo 0,1% portano a grandi insuccessi, cosa dovremmo ricavare da esseri che differiscono da noi per il 2 o il 15% di DNA?

La routine di laboratorio causa stress negli animali: implicazioni etiche e scientifiche

[Balcombe J, Barnard N, Sandusky C. Laboratory routines cause animal stress. Contemp Top Lab Anim Sci 2004; 43(6): 42-51.]

Abstract:

80 pubblicazioni sono state valutate per documentare il grado di stress potenzialmente associato a 3 tipi di pratiche comunemente effettuate sugli animali: manipolazione, prelievo ematico, introduzione di sonda oro-gastrica. Abbiamo definito con “manipolazione” tutte quelle pratiche routinarie non invasive correlate con l’allevamento e la pulizia degli animali: pulizia delle gabbie, spostamento delle stesse, spostamento degli animali. Per tutte e 3 le tipologie di pratica ed in diverse specie sono state rilevate significative variazioni nei parametri fisiologici collegati allo stress (ad es. concentrazione plasmatica di corticosteroidi, glucosio, ormone della crescita, prolattina, pressione sanguigna, variazioni comportamentali). I risultati di tale studio dimostrano che gli animali rispondono con rapida, pronunciata e significativa elevazione dei parametri collegati allo stress, per ognuna delle procedure esaminate, anche se la manipolazione ha dimostrato suscitare alterazioni variabili al sistema immunitario. Le alterazioni variano tra il 20% ed il 100% ed oltre in più rispetto ai valori basali o ai controlli. Tali alterazioni hanno una durata minima di 30 minuti dalla fine della pratica. I risultati dello studio suggeriscono che le pratiche abituali di laboratorio causino notevole stress negli animali e che gli animali non siano in grado di adattarsi alle stesse in tempi brevi: questi fenomeni hanno implicazioni etiche e scientifiche per quanto riguarda l’uso degli animali nella ricerca.

ABSTRACT: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15669134

FULL TEXT: http://www.psychologytoday.com/files/attachments/41209/lab-routines-cause-animal-stresspdf.pdf

Luoghi comuni sull’antivivisezionismo

Se siete contro la sperimentazione animale vi sarete senz’altro già trovati in una delle situazioni sotto descritte. Sotterfugi di chi non ha argomentazioni.

CASO 1

„Sono contro la vivisezione.“

„Allora non dovresti curarti.“

A questa risposta solitamente seguono deliri quali „non dovresti curare nemmeno i tuoi figli o i tuoi animali“, ma é davvero sensato il tutto? No, perché io non ho nessuna scelta e così nemmeno i miei cari o i miei animali. Posso scegliere di limitare il consumo di farmaci per disagi meno gravi ad esempio, un mal di testa, un colpo di tosse, un leggero raffreddore, e così via, prediligendo rimedi più caserecci, come un té caldo e una buona dormita, ma assolutamente questo non influenza la mia scelta di curarmi con la medicina tradizionale nel caso di malattie più preoccupanti.

Conoscerete sicuramente qualcuno, forse anche pro sperimentazione animale, che devolve donazioni contro la fame nel mondo, gli avete mai chiesto perché non si lascia morire di fame a sua volta?

 

CASO 2

„Sono contro la vivisezione.“

„Allora non devi mangiare carne.“

Perché? Perché l’unica posizione contraria alla sperimentazione animale è quella animalista? Questo messaggio, che purtroppo è piuttosto radicato, serve solamente a declassare le posizioni scientifiche anti-S.A. Sempre più, infatti, stanno nascendo gruppi contrari alla SA su queste basi (scientifiche). L’etica c’entra relativamente, si combatte un modello non funzionante cercando di promuovere modelli più predittivi per l’uomo, e proprio in sua funzione. Ciò non toglie che è chiaramente impossibile rimanere impassibili di fronte al video o all’immagine di un animale in un laboratorio, soprattutto se si tiene conto della sua sofferenza inutile.

Questo discorso potrebbe funzionare se una persona si dice contraria alla sperimentazione animale „per i poveri animali“, in quel caso, puntando soprattutto sull’etica, non ha nessun senso fare una distinzione tra animale da laboratorio e da allevamento per ricavarne la carne.

 

CASO 3

„Sono contro la vivisezione.“

„Allora non credi nella scienza e rallenti la ricerca.“

Uno scenario apocalittico: nello „sfortunatissimo“ caso che la sperimentazione animale venga vietata, morte e distruzione incomberanno sugli uomini, soli ed indifesi di fronte alle pestilenze. Si ironizza, ma affermazioni di questo stampo, sebbene molto più blande, sono solamente un modo per rendere la sperimentazione animale assolutamente necessaria senza spiegarne il motivo, ma puntando semplicemente sulla normale paura umana della morte e delle malattie.

Vi siete mai chiesti perché i metodi alternativi per i pro-SA non funzionano a priori? Perché non affrontano il discorso in modo serio e non solo in chiave ironica e puntando sui limiti, veri o presunti, dei modelli alternativi? Rallentare lo sviluppo di metodi più economici (sul lungo periodo), affidabili e moderni non significa ritardare a propria volta la ricerca?

 

CASO 4

„Sono contrario alla vivisezione.“

„Meglio un topo o tuo figlio?“

Lo slogan per eccellenza, l’utilizzo di una domanda retorica che „implica una risposta predeterminata, e in particolare induce a eliminare tutte le affermazioni che contrasterebbero con l’affermazione implicita nella domanda stessa.“ (da Wikipedia) e di una sorta di ricatto morale, una forma di manipolazione, dove il ricevente del messaggio intuisce una sorta di minaccia, per lui o i suoi cari, che lo spingono ad approvare una data cosa o a comportarsi in un certo modo (un esempio per chiarire: „se non lo fai, ti ammazzo“).

Effettivamente questo slogan, perché di questo si tratta dal momento che questa affermazione, come spesso nel caso delle posizioni favorevoli alla sperimentazione animale, non contiene nessuna base scientifica, è geniale. Giustifica qualsiasi fatto: „meglio tuo figlio o un altro bambino?“, „meglio tuo figlio o TE STESSO?“, „meglio un cucciolo di beagle di pochi mesi strappato alla sua mamma e ai suoi fratellini per essere tenuto solo in una fredda gabbia senza contatto e affetto con i suoi enormi occhioni tristi che aspetta scodinzolante il suo torturatore perché almeno sentirà un parvore di calore o tuo figlio?“, provate a rispondere.

 

CASO 5

„Sono contrario alla vivisezione.“

„Si, ma solo per quello che riguarda gli animali più carini.“

Questa a lungo non l’ho capita. Esistono davvero persone contrarie alla sperimentazione animale per quello che riguarda, per esempio, i cani e i gatti, ma non i ratti? Oppure le scimmie, ma non i pesci zebra? Poi ho riflettuto, sarà che i pro-SA si riferiscono al fatto che sulle pagine contrarie alla sperimentazione animale spesso si vedono foto di cani o topolini e meno di altri animali? Non sarà forse che attirano, ovviamente, più pubblico e quindi visibilità? Oppure, non potrebbe essere che topi, ratti e beagle sono un po’ il simbolo di questo metodo di ricerca e quindi vengono utilizzati anche per far comprendere immediatamente all’utente su che tipologia di pagina si trova?

„Loro“ non sono ipocriti, e infatti le poche immagini che abbiamo della vita di laboratorio e delle pratiche effettuate in essi, non ci giungono da riprese illegali ma proprio dai siti che difendono questo metodo di ricerca (ironico, sic.). 

[S.P.]

Reazioni avverse ai farmaci (ADRs) e sperimentazione animale

[van Meer PJ, Kooijman M, Gispen-de Wied CC, Moors EH, Schellekens H.
The ability of animal studies to detect serious post marketing adverse events is limited.
Regul Toxicol Pharmacol. 2012 Dec;64(3):345-9. doi: 10.1016/j.yrtph.2012.09.002. Epub 2012 Sep 12.]

ABSTRACT: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22982732

Questo recente studio ha dimostrato che i test su animali hanno omesso nel’81% dei casi di segnalare ADRs (Adverse Drugs Reactions), gravi reazioni avverse, in 43 farmaci presi in esame che hanno seriamente danneggiato i pazienti a cui furono somministrati.

Abstract:

Il valore degli studi su animali per valutare la sicurezza dei farmaci non è chiaro perché molti di questi studi sono di parte e hanno carenze metodologiche. Abbiamo studiato se dopo la commercializzazione gravi reazioni avverse a piccole molecole farmacologiche avrebbero potuto essere rilevate sulla base dei dati dello studio su animali incluso nei documenti di registrazione dei farmaci. Di 93 reazioni avverse gravi legate a 43 piccole molecole farmacologiche, solo il 19% è stato identificato in studi su animali come un vero esito positivo, il che suggerisce che i dati provenienti dagli studi su animali abbiano un valore limitato per le attività di farmacovigilanza. Il nostro studio dimostra che i documenti di registrazione dei farmaci possono essere usati per studiare il valore predittivo degli studi su animali e che il valore degli studi su animali in tutte le fasi di sviluppo del farmaco dovrebbe essere studiato in uno sforzo collaborativo tra autorità di regolamentazione, industria e mondo accademico.

Nel testo:

One could argue that non-clinical studies are not designed to identify rare adverse reactions that appear after market approval.
Although the number of animals used in non-clinical studies is relatively small, the studies are designed to find important side effects that are likely to occur in humans (International Conference on Harmonisation of Technical Requirements for Registration of Pharmaceuticals for Human Use, 2009). However, as high doses are administered for a prolonged period to elicit a complete toxicological response in animals, this approach can also estimate potential
toxicities that could occur in humans. In 18 cases, true positive events in animal studies correctly predicted post-marketing adverse reactions. Nevertheless, the low incidence rate, high doses, prolonged exposure, and species specificity were important reasons to assume that these events were unlikely to occur in the clinical trial population. In addition, the number of adverse reactions in animals that have no corollary in humans (false positives) increase with increasing dose, suggesting that over-exposure might not produce meaningful results (Igarashi et al., 1995).

Riferimenti:

International Conference on Harmonisation of Technical Requirements for Registration of Pharmaceuticals for Human Use, 2009. Guidance on Non-Clinical Safety Studies for the Conduct of Human Clinical Trials and Marketing Authorization for Pharmaceuticals M3(R2), EMA, London.

Igarashi, T. et al., 1995. Predictability of clinical adverse reactions of drugs by
general pharmacology studies. J. Toxicol. Sci. 20, 77–92.

La Tossicologia del XXI secolo è qui!

In questo post scardineremo le varie critiche che il gruppo pro-s.a. “Pro-Test Italia” ha avanzato contro il lavoro di Hartung su Nature del 2009, “Toxicology for the twenty-first century”.

1) Queste persone affermano, riguardo al primo studio citato da Hartung, ovvero un documento edito dal NIEHS (National Institute of Environmental Health Sciences):

“Hartung fa notare che la correlazione media tra LD50 nei ratti e la concentrazione ematica letale dello stesso composto negli umani è scarsa, riportando il valore di 0.56. Leggendo il documento originale, si scopre che in realtà tale valore è 0.75, ben superiore di quello riportato da Hartung. […] Infatti, leggendo il report originale, si nota che il valore di 0.56 riportato da Hartung è in realtà il coefficiente di determinazione (R2), cioè il quadrato della correlazione (pagg. ix, 21 e 35 del documento originale). Quindi la correlazione di cui parla Hartung è 0.75 e non 0.56. Il che significa, considerate anche le differenze tra i due tipi di misura, che è molto alta.”

Non citano però la parte in cui, confrontando i valori di un test sostitutivo alla LD50 in fase di validazione che impiegava materiale biologico umano, esso dimostrava una maggiore correlazione (0.62) con la concentrazione letale della stessa sostanza chimica nel sangue degli esseri umani (LC50) più di quanto non avessero fatto test come il 3T3 che impiegava fibroplasti di topo (la sua correlazione era pari allo 0.51) e la stessa LD50 (come sopra detto correlazione tra LD50 e LC50 pari allo 0.56):
”The NHK NRU IC50 data had a higher correlation with human LC50 values (R2=0.62) than did rodent 3T3 NRU IC50 data (R2=0.51) and a higher correlation than did rodent LD50 data with human LC50 values (R2=0.56)”
E se il coefficiente di determinazione di 0.56 diventa un coefficiente di correlazione di quasi lo 0.75, il coefficiente di determinazione del nostro metodo alternativo (0.62) diventa un coefficiente di correlazione di quasi lo 0.79!
Ecco dimostrato come il metodo alternativo in questione dia comunque risultati migliori dell’animale.

2) Il secondo lavoro citato da Hartung è:
Basketter, D.A., York, M., McFadden, J.P. & Robinson, M.K. (2004). Determination of skin irritation potential in the human 4-h patch test. Contact Dermatitis. 51, 1-4.
e la critica è la seguente:

“Quella cui si riferisce implicitamente Hartung è la specificità, indicante la percentuale di falsi positivi (irritante nel coniglio ma non nell’uomo). Da quanto detto si può dedurre che il test dermatologico sul coniglio risulta efficiente per salvaguardare la salute umana (perché sensibile) ma può generare dei falsi positivi.”

Tuttavia, è ciò che lo stesso Hartung afferma, pertanto si è utilizzata la fallacia dell’uomo di paglia: ovvero s’è cercato di confutare un argomento riproponendolo in maniera errata.

Infatti, se leggiamo nel testo, troviamo:
“Similarly, in another study, 40% of the chemicals that irritated the skin of rabbits were found not to be irritants in the skin ‘patch test’ in humans.”

3) Il terzo articolo è “Data quality in predictive toxicology: reproducibility of rodent carcinogenicity experiments.” di Gottmann et al., 2001.
La critica è la seguente:

“questo lavoro non investiga la generalizzabilità dei risultati da una specie all’altra, ma da un database (NCI/NTP) all’altro (letteratura generale), a parità di specie (topi e ratti, si veda l’Introduzione, pag. 509, del lavoro originale). Quindi l’uso che fa Hartung di questa citazione è semplicemente improprio.”

Tuttavia, se la riproducibilità all’interno della stessa specie è così bassa, la trasposizione di questi risultati all’uomo lo sarà di certo ancora meno.

Inoltre affermano:

“per inciso gli stessi autori dichiarano che altri studi hanno rilevato una riproducibilità degli effetti carcinogenici compresa tra il 93% e il 76%”

Ma anche qui, gli stessi autori attribuiscono questi risultati a dei bias, infatti leggiamo:
“Looking for an explanation for the discordance with our results, we realized that from 47 concordant experiments (sex, administration route, and target organs were considered; therefore, the number of experiments is larger than the number of compounds) with rats and mice listed by Gold et al. (16), 34 results were published by the same authors. This may have led to a bias towards identical results, but it may be also an indicator of the importance of strict experimental protocols for reproducibility. In addition, the results may differ for statistical reasons caused by the different data sets (size and selection of compounds)”

4) Il quarto studio è “Species Sensitivities and Prediction of Tetratogenic Potential” di Schardein et al., 1985.
La critica è:

“Questo lavoro (assai datato) compara i risultati sulla teratogenicità (tossicità fetale) di molti composti in specie differenti, compresa quella umana. Hartung, citando quest’articolo, riporta una concordanza del 53-60%, evidenziando come i risultati ottenuti su una specie siano difficilmente generalizzabili alle altre. […] Non sono riuscito a trovare nel testo il dato riportato da Hartung (53-60%), quindi ho analizzato le tabelle riportate nella fonte, che mostrano la teratogenicità di molte decine di composti in varie specie non umane.”

E da questo presupposto hanno iniziato a calcolare la media “corretta”.
Peccato che nell’articolo di Hartung non si parli della concordanza media, ma di “tipici risultati”, leggiamo infatti:
“Typical results from such studies show agreement between animal species for 53–60% of chemicals”.
Infatti i “typical results” del 53 e del 60% sono quelli del topo e del ratto – non a caso le specie maggiormente utilizzate – nella tabella 5 sulle estrapolazioni da specie a specie che più precisamente esprimono il rapporto tra il numero di composti risultati non teratogenici nei due roditori e il numero di composti risultati non teratogenici nell’uomo (rapporto NT/T).

5) Il quinto studio è il famosissimo Olson Study del 2000.
La critica è:

“Il punto principale è che tale lavoro, come specificato dagli autori stessi (primo paragrafo della Discussione), non è volto a misurare il valore predittivo degli studi animali sull’uomo. Riporto di seguito le parole degli autori:
“This study did not attempt to assess the predictability of preclinical experimental data to humans. What it evaluated was the concordance between adverse findings in clinical data with data which had been generated in experimental animals (preclinical toxicology).””

Peccato che precedentemente dica anche:
“The primary objective was to examine how well toxicities seen in preclinical animal studies would predict actual human toxicities for a number of specific target organs using a database of existing information …”
Questo studio è infatti abbastanza controverso, e spesso viene portato come prova della “validità della s.a.”, tuttavia vi sono già stati autori che l’hanno criticato, riporto a tal proposito le considerazioni di Niall Shanks, Ray Greek e Jean Greek nella pubblicazione peer-reviewed “Are animal models predictive for humans?”:

“The Olson Study, as noted above, has been employed by researchers to justify claims about the predictive utility of animal models. However we think there is much less here than meets the eye. Here’s why:
1. The study was primarily conducted and published by the pharmaceutical industry. This does not, in and of itself, invalidate the study. However, one should never lose sight of the fact that the study was put together by parties with a vested interest in the ou
tcome. If this was the only concern, perhaps it could be ignored, however, as we will now show, there are some rather more serious flaws.

2. The study says at the outset that it is aimed at measuring the predictive reliability of animal models. Later the authors concede that their methods are not, as a matter of fact, up to this task. This makes us wonder how many of those who cite the study have actually read it in its entirety.
3. The authors of the study invented new statistical terminology to describe the results. The crucial term here is “true positive concordance rate” which sounds similar to “true predictive value” (which is what should have been measured, but was not). A Google search on “true positive concordance rate” yielded twelve results (counting repeats), all of which referred to the Olson Study (see figure 5). At least seven of the twelve Google hits qualified the term “true positive concordance rate” with the term “sensitivity” – a well-known statistical concept. In effect, these two terms are synonyms. Presumably the authors of the study must have known that “sensitivity” does not measure “true predictive value.” In addition you would need information on “specificity” and so on, to nail down this latter quantity. If all the Olson Study measured was sensitivity, its conclusions are largely irrelevant to the great prediction debate.
4. Any animals giving the same response as a human was counted as a positive result. So if six species were tested and one of the six mimicked humans that was counted as a positive. The Olson Study was concerned primarily not with prediction, but with retroactive simulation of antecedently know human results.
5. Only drugs in clinical trials were studied. Many drugs tested do not actually get that far because they fail in animal studies.
6. “…the myriad of lesser “side effects” that always accompany new drug development but are not sufficient to restrict development were excluded.” A lesser side effect is one that affects someone else. While hepatotoxicity is a major side effect, lesser side effects (which actually matter to patients) concern profound nausea, tinnitus, pleuritis, headaches and so forth. We are also left wondering whether there was any independent scientific validity for the criteria used to divide side effects into major side effects and lesser side effects.
7. Even if all the data is good – and it may well be – sensitivity (i.e. true positive concordance rate) of 70% does not settle the prediction question. Sensitivity is not synonymous with prediction and even if a 70% positive prediction value rate is assumed, when predicting human response 70% is inadequate. In carcinogenicity studies, the sensitivity using rodents may well be 100%, the specificity, however, is another story. That is the reason rodents cannot be said to predict human outcomes in that particular biomedical context.
The Olson Study is certainly interesting, but even in its own terms it does not support the notion that animal models are predictive for humans. We think it should be cited with caution. A citation search (also performed with Google on 7/23/08) led us to 114 citations for the Olson paper. We question whether caution is being used in all these citations.”

Ripetono lo studio, il risultato cambia: test su ratti e mais OGM

[Séralini GE, Cellier D, de Vendomois JS. New analysis of a rat feeding study with a genetically modified maize reveals signs of hepatorenal toxicity. Arch Environ Contam Toxicol. 2007 May;52(4):596-602. Epub 2007 Mar 13.]

Anche per testare la sicurezza del mais OGM si è richiesto l’uso di animali, e, a seguito di studi precedenti che – sempre sulla stessa specie – avevano dato esito positivo, ve ne sono stati altri – come questo – che hanno dimostrato il contrario.

Lungi dal voler utilizzare questi dati per dimostrare una o l’altra tesi, essi sono piuttosto la riconferma di come i risultati forniti dai modelli animali siano ben poco riproducibili.

Abstract:

La valutazione del rischio per la salute degli organismi geneticamente modificati (OGM) coltivati per alimenti o mangimi è oggetto di dibattito in tutto il mondo, e pochi dati sono stati pubblicati sugli studi tossicologici a medio o a lungo termine con i mammiferi. Uno di questi studi effettuati sotto la responsabilità di Monsanto Company con un mais transgenico MON863 è stato sottoposto alle domande dei recensori di regolamentazione in Europa, dove è stato finalmente approvato nel 2005.
Ciò ha richiesto una nuova valutazione delle scoperte sulle patologie renali, e il risultato è rimasto controverso. Un’azione in Corte d’Appello in Germania (Münster) ha consentito il pubblico accesso nel giugno 2005 a tutti i dati grezzi di questo studio di 90 giorni di alimentazione dei ratti. Abbiamo rianalizzato indipendentemente tali dati. Sono state aggiunte le statistiche appropriate, come ad esempio un’analisi multivariata delle curve di crescita e dei confronti per i parametri biochimici tra i ratti trattati con OGM e quelli di controllo nutriti con una dieta normale equivalente, e, separatamente, con sei diete di riferimento con diverse composizioni. Abbiamo osservato che dopo il consumo di MON863, i ratti hanno mostratolievi, ma correlate alla dose, significative variazioni nella crescita per entrambi i sessi, con conseguente diminuzione di peso del 3,3% per i maschi e l’aumento del 3,7% per le femmine. Le misurazioni chimiche rivelano segni di tossicità epato-renale, segnati anche dalle sensibilità differenziali in maschi e femmine.
I trigliceridi sono aumentati del 24-40% nelle femmine (sia alla 14esima settimana, dose dell’11%, o alla 5a settimana, la dose del 33%, rispettivamente); il fosforo dell’urina e gli escrementi di sodio sono diminuiti nei maschi del 31-35% (14esima settimana, dose del 33%) per i più importanti risultati significativamente legati al trattamento rispetto a sette diete testate. Esperimenti più lunghi sono essenziali al fine di indicare la vera natura e l’entità della possibile patologia, con i dati attuali non può essere concluso che il mais GM MON863 è un prodotto sicuro.

ABSTRACT: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17356802

FULL TEXT: http://ww.w.rapaluruguay.org/transgenicos/Maiz/Genetically_Maize.pdf

Nella mente del vivisettore: perchè è sbagliato parlare di cattiveria

Come nasce un “vivisettore”?
Qual è il sistema che v’è dietro a tutto questo? 
Un’analisi psicologica del fenomeno “sperimentazione animale”

Come nasce un vivisettore? E’ forse una persona che “odia gli animali”? Un “sadico”, come ho spesso sentito dire? Chiariamo fin da subito che la risposta è NO.

Per capire l’indottrinamento che v’è dietro il nostro sistema educativo e lavorativo, dobbiamo partire dall’istruzione universitaria.

I futuri studenti che svolgeranno attività di sperimentazione su animali non sono solitamente diversi dagli altri, nè hanno una particolare indole al maltrattamento verso queste creature, semplicemente gli vengono proposti testi che – per ovvie ragioni – riportano spesso solo i “successi”, solo quegli studi che hanno effettivamente avuto un risvolto sulla salute umana e animale.

Questo che significa? Vuol dire che questi ragazzi non leggeranno mai di “fallimenti del modello animale”, vuol dire che vedranno sempre come un'”eccezione” quella che poi – ad un’analisi più approfondita – si rivela essere invece la norma, ovvero la mancanza di predittività del modello animale.

Tutti gli studenti avranno letto la scoperta di questo o di quel farmaco “sperimentato su scimmie” od “ottenuto successivamente alla ricerca su animali”, ma quanti di questi conoscono pubblicazioni che affermano che la “ricerca su animali” ottiene un risultato utile sull’uomo all’incirca in un caso su 25 000? [Crowley WF Jr. Translation of basic research into useful treatments: how often does it occur? Am J Med. 2003 Apr 15;114(6):503-5.]
Quanti di questi studenti sanno che dell’ “innumerevole numero di farmaci che dobbiamo alla sperimentazione animale” il 92% è fallito in fase clinica, ovvero su volontari umani, risultando tossico o inefficace? [Innovation or Stagnation: Challenge and Opportunity on the Critical Path to New Medical Products. U.S. Department of Health and Human Services. Food and Drug Administration. March 2004]

Vi rispondo brevemente: NESSUNO.

Questo perchè i testi sono “manomessi”? No, semplicemente perchè non c’è alcuna utilità nello spiegare un esperimento fallito agli studenti, sarebbe solo una mole di studio in più che “nessuno vuole”.

A ciò vanno aggiunte alcune considerazioni sull’argomento sia di professori – a loro volta convinti dell’utilità della sperimentazione animale – che di libri scritti spesso da ricercatori pro-s.a. che questi stessi giovani leggeranno e spesso dovranno anche ripetere.

Riportiamo un esempio tratto dal libro “Neuroscienze. Esplorando il cervello” di Bear, Connors e Paradiso:

I diritti degli animali. La maggior parte delle persone accetta la necessità della sperimentazione animale per l’avanzamento delle conoscenze, purchè venga eseguita con umanità e con debito rispetto per la tutela degli animali. Ad ogni modo, una minoranza rumorosa e sempre più violenta lotta per l’abolizione totale dell’uso di animali a beneficio dell’uomo, compresa la sperimentazione. Queste persone aderiscono ad una posizione teorica detta dei “diritti degli animali”. Secondo questo modo di pensare, gli animali godono degli stessi diritti legali e morali dell’uomo.

Un amante degli animali che simpatizzi con questa posizione dovrebbe riflettere su alcuni punti. Sarebbe disposto a rinunciare per sè e per la propria famiglia alle tecniche mediche sviluppate sugli animali? La morte di un topo può essere equivalente a quella di un uomo? Tenere un animale domestico è l’equivalente morale dell’avere uno schiavo? Mangiare carne è, dal punto di vista morale, equivalente ad uccidere un uomo? Non è etico uccidere un maiale per salvare la vita di un bambino? Il controllo della popolazione dei topi nelle fogne o della popolazione degli scarafaggi nelle case ha l’equivalenza morale dell’Olocausto? Se la risposta a una qualunque di queste domande è no, allora non aderiamo alla filosofia dei “diritti degli animali”. 

Ci rendiamo conto di ciò che devono leggere questi studenti?
A parte la completa banalizzazione e demonizzazione della filosofia dei diritti degli animali (spesso coincidente con l’antispecismo), che asserisce solo che in quanto essi sono esseri senzienti come noi non dovrebbero essere sfruttati e che rifiuta pertanto i principi di discriminazione individuabili nell’intelligenza o nella forza già in altri contesti rigettati dalla società, che viene sminuita e distorta in frasi come “Il controllo della popolazione dei topi nelle fogne o della popolazione degli scarafaggi nelle case ha l’equivalenza morale dell’Olocausto?” c’è un altro dato importantissimo.

Non vi è alcun accenno all’esistenza di un’opposizione scientifica all’uso di animali negli esperimenti.

“Va bene”, direte voi, “ma avranno una loro etica?”

Per spiegare questo aspetto, cito un esperimento, quello di Milgram, che ci conferma, tra le altre cose, quanto possa essere forte la pressione dell’autorevolezza della scienza (o di quella che le persone ritengono sia scienza) sul comportamento umano:

40 partecipanti, pagati appena 4,50 $, furono reclutati tramite annunci di giornale per partecipare ad un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento.

Ogni partecipante si calava nel ruolo di un “insegnante” che doveva fornire una scossa elettrica (che andava dai 30 volts fino ai 450) ad uno “studente” (in realtà un attore) ogni volta che fosse stata prodotta una risposta errata.

Queste persone non furono mai trattenute fisicamente, potevano andarsene, l’unica cosa che dicevano i ricercatori era: “continua, per favore”, “l’esperimento richiede che tu continui”, “è assolutamente essenziale che tu continui” e “devi andare avanti”.

Ebbene, i risultati furono sbalorditivi: la scossa massimale media inflitta ai soggetti fu di 360 V e il 62,5% dei soggetti (ben 2 su 3!) aveva obbedito fino all’ultima scossa (450 V).

Se queste persone – gente normalissima – fecero (o meglio, credettero di fare, dato che si trattava di simulazioni senza che loro lo sapessero) simili gesti su esseri umani, perchè crediamo che una pressione come quella che abbiamo avuto modo di conoscere, effettuata da niente di meno che ciò che la maggior parte della gente ritiene sia “un’autorità scientifica”, non dovrebbe condizionare altrettante persone “normali” a compiere gesti inaccettabili su animali innocenti per un risultato clinico pressoché nullo o casuale?

Pertanto definire i “vivisettori” delle persone “malvagie”, “sadiche” o “cattive” è non solo sbagliato, ma anche una semplificazione non da poco.

“Persone normali, che fanno il loro lavoro e senza alcuna particolare ostilità nei confronti delle vittime, possono diventare terribili parti attive in un processo di distruzione: anche quando gli effetti si rivelano in tutta la loro gravità, poche persone hanno le risorse necessarie per resistere ad una autorità” (Milgram, 1974).

 

Colture 3D vs 2D: tessuti umani 3D per studi di nefrotossicità

„Il costo impressionante per portare un farmaco sul mercato, unito all’elevato tasso di fallimenti dei potenziali composti, a causa dell’inaspettata tossicità per l’uomo, nelle prime fase cliniche rende indispensabile lo sviluppo di modelli per meglio predire la tossicità dei farmaci più rilevanti per l’essere umano. La nefrotossicità [che causa danni ai reni] indotta dai farmaci rimane particolarmente difficile da predire sia nelle fasi pre-cliniche che in quelle cliniche e passa spesso inosservata finché il paziente non dev’essere ricoverato. I correnti metodi pre-clinici per determinare la tossicità renale includono le colture di cellule 2D e i modelli animali, entrambi non in grado completamente di ricapitolare la risposta umana in-vivo ai farmaci, contribuendo al tasso di fallimento delle fasi di sperimentazione clinica. Abbiamo sviluppato un modello di tessuto renale 3D usando cellule corticali epiteliali umane immortalizzate con funzioni renali simili a quelle presenti in-vivo. Questi tessuti 3D sono stati confrontati con cellule 2D, sia per la tossicità acuta (3 giorni) che cronica (2 settimane) indotta da cisplatino, gentamcina, doxorubicina utilizzando sia la tradizionale secrezione di LDH che i biomarcatori pre-clinici Kim-1 e NGAL come valutazioni di tossicità. I tessuti 3D sono risultati più sensibili alla tossicità indotta dai farmaci e, a differenza delle cellule 2D, sono potuti essere utilizzati per monitorare la tossicità cronica dovuta alle dosi ripetute. L’inclusione di questo modello di tessuto per testare farmaci prima dell’inizio della fase I dei trial clinici consentirebbe una migliore previsione degli effetti nefrotossici di nuovi farmaci.“

„Si stima che ci vogliano 9 anni e costi tra gli 0.8 e 1.7 miliardi di dollari per portare un farmaco attraverso i trial clinici. […] circa l’8% dei farmaci che entrano nella fase I raggiungeranno poi il mercato. Questo basso tasso é causato da diversi fattori, tra i quali la mancanza di metodi ben consolidati in grado di prevedere con precisione l’utilità clinica e la tossicità dei farmaci durante lo sviluppo pre-clinico. L’iniziativa „Critical Path“ [1] della FDA richiede lo sviluppo di strumenti migliori per incrementare il successo dei farmaci che passano dalla sperimentazione pre-clinica a quella clinica. Incluso in questo processo vi é lo sviluppo di modelli di tessuto umano in grado di predire meglio le risposte umane in-vivo, tra cui la tossicità d’organi“.

Ed é proprio della tossicità sugli organi che i ricercatori si occupano in questo articolo, sopratutto degli effetti nefrotossici, difficilmente riscontrabili nei modelli animali e in 2D.

Come si può leggere, infatti: „il rene é uno dei maggiori siti di tossicità indotta da farmaci dato che riceve circa il 25% della gittata cardiaca ed é un luogo di significativa escrezione. Solo circa il 7% dei farmaci fallisce a causa della sua nefrotossicità i test pre-clinici su colture di cellule 2D e modelli animali, mentre é stimato che circa il 30-50% dei casi di acuta insufficienza renale nei pazienti siano dovuti a nefrotossicità indotta dai farmaci. Gli attuali metodi di test pre-clinici non sono abbastanza rigorosi per predire la risposta umana alla maggior parte dei farmaci“.

Le colture cellulari 2D „hanno il vantaggio di essere molto semplici, e poco costose. Tuttavia […] sono incapaci di ricapitolare la complessità del contesto in-vivo e hanno dimostrato spesso per indurre una risposta tossica di richiedere dosi maggiori e su periodi di tempo più lunghi rispetto alle reazioni di tossicità in-vivo sul paziente“. I modelli animali, invece, „offrono il vantaggio di un sistema complesso che si perde con le colture cellulari 2D. Tuttavia, la biologia animale differisce per molti aspetti da quella umana a causa delle differenze fisiologiche ed ambientali, rendendoli così in grado di prevedere le risposte umane solo in una certa misura. Oltretutto i test su, ad esempio, i roditori, vengono effettuati un gran numero di volte e con animali „altamente ordinati con gli stessi background genetici, età, fattori ambientali e stati di malattia“. Queste condizioni non possono venir riprodotte e controllate nell’uomo, soprattutto nelle prime fasi cliniche. A questo va aggiunto che „nel caso di nefrotossicità indotta da farmaci, le persone più sensibili sono quelle con condizioni renali insufficienti o quelle già in trattamento con farmaci nefrotossici. Queste persone non vengono normalmente incluse negli studi clinici e così la loro risposta si saprà solo quando verranno trattati con un farmaco approvato“.

„Le bioingegnerie dei tessuti con cellule umane rifletteranno meglio la situazione nei pazienti, in quanto consentiranno test di tossicità acuta anche per periodi di esposizione più lunghi. Questo darà la possibilità di rilevare lesioni cumulative dei tessuti con una somministrazione ripetuta di diverse concentrazioni subtossiche, una situazione più rilevante per la pratica clinica. Inoltre, i tessuti 3D sottoposti a esposizioni dei composti possono essere usati per rilevare biomarcatori indicativi di nefrotossicità in-vivo, consentendo così la traslazione dalla situazione in-vitro a quella in-vivo“. 

„Qui descriviamo un sistema di tessuto renale umano 3D bioingegnerizzato e la sua valutazione come predittore della nefrotossicità umana.

Il tessuto bioingegnerizzato è funzionalmente e morfologicamente simile al tessuto di rene umano in vivo. Il trattamento del tessuto con nefrotossici noti ha mostrato che il tessuto 3D era più sensibile a concentrazioni di farmaco inferiori rispetto alle stesse cellule coltivate in 2D. Inoltre, studi a lungo termine hanno rivelato l’utilità maggiore del modello 3D per studi di tossicità cronica rispetto al sistema 2D.“

„Il tasso di successo incredibilmente basso dei farmaci che entrano nelle fasi cliniche, una migliore comprensione dei limiti delle colture cellulari 2D, e iniziative per ridurre il numero di animali utilizzati per testare i farmaci hanno portato ad una recente spinta allo sviluppo dei modelli di tessuto umano 3D per lo studio della tossicità. Si ipotizza che i modelli di tessuto umano 3D potranno meglio ricapitolare la risposta in-vivo degli umani ai farmaci. Abbiamo caratterizzato un nuovo ed unico modello 3D del tessuto renale umano bioingegnerizzato ed applicato per la sperimentazione sulla nefrotossicità indotta da farmaci in confronto alle colture cellulari 2D. Abbiamo dimostrato che il modello di tessuto 3D ha una diversa tempistica di induzione della tossicità rispetto alle colture 2D ed é più sensibile al dosaggio del farmaco, avendo valori più bassi di DL50. Inoltre, abbiamo dimostrato l’utilità di questo modello per i test di tossicità cronica ed esaminato la rilevanza di marcatori pre-clinici per monitorare la tossicità in 3D.

Precedenti modelli 2D di nefrotossicità hanno fatto affidamento su cellule primarie del tubulo prossimale. Presumibilmente ciò consente, in termini di espressione genica, il monitoraggio della tossicità in una cellula molto vicina allo stato in-vivo. Tuttavia le cellule primarie non sono una fonte costantemente rinnovabile, richiedendo un re-isolamento da altri pazienti a causa della loro incapacità di proliferare durante numerosi passaggi e subiscono relativamente veloci cambiamenti dell’espressione genica dopo la crescita in-vitro. Per superare questo problema, il descritto tessuto renale umano 3D bioingegnerizzato é composto da cellule epiteliali renali umane hTERT immortalizzate originarie principalmente del tubulo prossimale. È stato dimostrato che le cellule immortalizzate perdono l’espressione dei trasportatori degli anioni organici e altre proteine rispetto alle cellule primarie,
alterando potenzialmente la loro idoneità per i test tossicologici. Tuttavia, l’utilizzo di cellule immortalizzate nella tossicologia fornirebbe costanza genetica rispetto alla variabilità insita utilizzando cellule primarie di pazienti differenti e permetterebbe la produzione di una rinnovabile e stabile serie di cellule per testare differenti stati di malattia. L’immortalizzazione delle cellule epiteliali renali umane hTERT ha dimostrato di non avere un effetto significativo sulla loro funzione e nei nostri studi abbiamo dimostrato che le nostre cellule epiteliali renali umani hTERT immortalizzate hanno più similitudini con la funzione renale in vivo nelle colture 3D che in quelle 2D, mantenendo l’espressione di OAT1 e OAT4, e rinnovando la trascrizione della mengalina quando cresciute come un tessuto 3D. Un ulteriore problema con l’uso di linee di cellule immortalizzate é la loro costante proliferazione che le rende inadatte per studi cronici a lungo termine. Ciò é evidente nei nostri dati nei quali l’LDH aumenta nel tempo nei modelli 2D senza trattamento farmacologico. Tuttavia, questo problema non era evidente nella coltura tissutale 3D. L’LDH non ha proliferato, distruggendo il tessuto bioingegnerizzato, anche dopo 8 settimane di coltura. Questo può essere il risultato di eventi di segnalazione tra l’ECM e le cellule o risultare dalla loro formazione in una struttura 3D. Ulteriori esami del modello 3D possono rilevare il motivo della senescenza apparente delle cellule in 3D rispetto al 2D e ulteriori ricerche sul meccanismo di tossicità dei farmaci dovrebbe fornire un‘ulteriore prova dell’utilità di cellule epiteliali renali immortalizzate per la sperimentazione dei farmaci in-vitro.

Uno dei modi migliori per valutare l’effetto tossico di un composto in un sistema e compararlo con altri sistemi è con un valore di DL50. I dati sulla tossicità nel nostro modello 3D hanno rivelato una diminuzione significativa della DL50 sia per la gentamicina che per la  doxorubicina rispetto a entrambe le nostre cellule NKi-2 in 2D e i valori per hRPTEC pubblicati in precedenza. Inoltre, mentre la DL50 era simile tra 3D e 2D, con valore più altro in 3D, entrambi i valori erano più bassi rispetto ai valori pubblicati per hRPTEC e cellule HK-2. Mentre è difficile dimostrare la rilevanza di questo in-vivo, precedenti studi sulla tossicità della gentamicina in 2D hanno dimostrato che sono necessari dosi estremamente alte e un periodo prolungato è necessario per ottenere la massima tossicità rispetto a quanto richiesto nei pazienti. Presi insieme, stanno ad indicare che il nostro modello 3D bioingegnerizzato è più sensibile rispetto alle cellule 2D e hRPTEC.”

“Diversamente da test di lesioni renali in-vivo che possono esaminare i livelli di creatinina sierica, i test in-vitro sono limitati da marcatori non specifici della morte cellulare come LDH o, nel caso del rene, marcatori specifici di lesioni cellule epiteliali renali come Kim-1 e NGAL. Per meglio rilevare l’utilità del nostro modello 3D bioingegnerizzato per i test dei farmaci pre-clinici, abbiamo guardato la secrezione di questi biomarcatori pre-clinici. L’utilizzo di questi biomarcatori in vitro deve essere limitato poiché la NGAL ha dimostrato di essere sovraregolata sulla preparazione prossimale delle cellule del tubulo e Kim-1 non può venir adeguatamente espressa nelle colture di cellule 2D. Le nostre colture di cellule 2D esprimono livelli significativamente più alti di Kim-1 rispetto ai tessuti in 3D. Quando questo viene combinato con i nostri dati, viene suggerito che le cellule possono comportarsi più come le loro omologhe in-vivo se hanno la possibilità di formare una struttura 3D. Inoltre, la perdita di cellule vitali all’interno del sistema modello a causa dell’alta tossicità era evidente dalla perdita dell’espressione di Kim-1. La possibilità di usare biomarcatori pre-clinici con i costrutti dei tessuti renali umani 3D indica sia la loro somiglianza con i tessuti in-vivo che la loro utilità per futuri studi sulla nefrotossicità.

Abbiamo dimostrato la fattibilità di un modello 3D del tessuto renale umano e che questo può venir utilizzato negli studi pre-clinici dei farmaci con biomarcatori approvati. Mentre l’uso di modelli 3D per la nefrotossicità é stato studiato utilizzando tubuli di topo in idrogel, questo é il primo modello in grado non solo di guardare le funzioni delle cellule epiteliali renali umane, ma anche di essere applicato per gli studi sulla nefrotossicità. Questo modello ha il potenziale per limitare la quantità di animali negli studi pre-clinici e può dare migliori informazioni riguardo il dosaggio nei pazienti.

Ulteriori studi per esaminare l’espressione dei trasportatori e gli enzimi che metabolizzano i farmaci e il meccanismo d’azione dei farmaci nelle cellule, in un modello 3D serviranno a validare meglio il sistema e a rivelare la sua idoneità per lo studio dei meccanismi di tossicità dei farmaci.“

 

[1] http://www.fda.gov/scienceresearch/specialtopics/criticalpathinitiative/default.htm

[Teresa M. DesRochers, Laura Suter, Adrian Roth, David L. Kaplan. Bioengineered 3D Human Kidney Tissue, a Platform for the Determination of Nephrotoxicity. PLoS One. 2013; 8(3): e59219. PMCID: PMC3597621.]

Abstract: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/23516613 

Full text: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3597621/pdf/pone.0059219.pdf

Figure 7

[S.P.]

Co-colture tridimensionali di cellule epatiche primarie in bioreattori per studi sui farmaci in vitro

[Zeilinger K, Sauer IM, Pless G, Strobel C, Rudzitis J, Wang A, Nüssler AK, Grebe A, Mao L, Auth SH, Unger J, Neuhaus P, Gerlach JC.
Three-dimensional co-culture of primary human liver cells in bioreactors for in vitro drug studies: effects of the initial cell quality on the long-term maintenance of hepatocyte-specific functions.
Altern Lab Anim. 2002 Sep-Oct;30(5):525-38.]

Dall’abstract:

I modelli di coltura in vitro che utilizzano cellule di fegato umano potrebbero essere potenti strumenti per studi predittivi sulla tossicità dei farmaci e sul metabolismo nell’industria farmaceutica. Un modello di coltura di bioreattore è stato sviluppato che consente la co-coltura tridimensionale di cellule epatiche sotto continua perfusione media con scambio di massa decentrata e ossigenazione integrale. Abbiamo testato la capacità del sistema di supportare il mantenimento a lungo termine e la differenziazione delle cellule epatiche umane primarie.

[…]
Il microscopio ottico ha dimostrato la riorganizzazione tridimensionale di epatociti e di cellule non parenchimali in co-coltura. Il mantenimento a lungo termine, e anche la rigenerazione delle specifiche attività funzionali delle cellule epatiche umane, possono essere realizzate nel bioreattore. Ciò potrebbe facilitare l’introduzione nel settore farmaceutico della sperimentazione dei farmaci in vitro con cellule primarie di fegato umano.

Riportiamo alcune parti interessanti dall’articolo:

Vari metodi di coltura di epatociti sono stati stabiliti, prevalentemente basati su cellule animali, per studiare le vie metaboliche di farmaci e i meccanismi di epatotossicità (per una rassegna, vedi 1, 2). Tuttavia, i dati provenienti da modelli di cellule animali sono soggetti ad alcune limitazioni rispetto al loro valore clinico. E’ stato chiaramente dimostrato che marcate variazioni interspecie esistono nelle attività del CYP450 (3), e che le differenze di specie osservate in vivo possono essere riprodotte nei modelli di coltura cellulare (4, 5).

ABSTRACT: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12405881

FULL TEXT: http://www.frame.org.uk/atla_article.php?art_id=304&pdf=true

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Breve panoramica sullo studio dell’HIV: modelli animali e alternativi

Per tentare di meglio comprendere la patogenesi del virus dell’immunodeficienza umano, i ricercatori si sono basati sui SIVs („Simian immunodeficiency viruses“), dei retrovirus[i] presenti solo nei primati non-umani. Questo é dovuto al fatto che i virus dell’immondeficienza nelle scimmie „hanno proprietà morfologiche, di crescita e antigeniche che indicano che sono legati al virus dell’immunodeficienza umano (HIV)“ [1]. Tuttavia, a differenza dell’HIV, i SIVs non risultano patogeni se presenti nei loro ospiti naturali, sviluppando una malattia simile all’infezione da HIV umano solo se inoculati in alcuni tipi di scimmia [2]. Ad esempio, due sottospecie di scimpanzé risultano ospiti naturali del SIVcpz [ii], mentre una terza specie, il P.t. verus non lo é[2].

I modelli animali SIV nello studio dell’AIDS mostrano dei limiti, a causa delle „divergenze genetiche tra le glicoproteine che compongono l’involucro [iii]“ [5] dei virus. Si é quindi deciso di ricorrere a dei „chimerici virus dell’immunodeficienza scimmia/umano (SHIVs)“ [5]. Attualmente, comunque, non esistono modelli animali sufficientemente precisi e predittivi per lo studio dell’HIV umano [6].

L’articolo del quale ci vogliamo occupare [7], sebbene si basi su dati animali, che andrebbero invece preferibilmente sostituiti da corrispettivi umani, propone un approccio combinato tra modelli matematici e studi in-vitro; „metodo che potrà essere applicato ad altre infezioni virali e usato per migliorare la determinazione dell’effetto e del efficacia di composti antivirali in-vitro“.

Per la creazione del modello, i ricercatori si sono basati sul ceppo di SHIV, SHIV-KS661, che causa un’infezione che esaurisce sistematicamente le cellule T CD4+ [iv] nei macachi rhesus, manifestazione analoga a quella che provoca l’infezione da HIV nell’uomo. Come anche asserito nell’articolo, tuttavia, „la cinetica dettagliata del SHIV-KS661 rimane poco chiara. Quantificare e capire la cinetica virale ci fornirà nuovi spunti circa la patogenesi del SHIV (e dell’HIV-1)“.  L’analisi matematica degli studi su animali e colture di cellule „hanno rilevato aspetti fondamentali delle infezioni virali, compresi la specificazione dell’emivita [v] delle cellule  infette e dei virus, la dimensione di scoppio del virus [vi] e il contributo relativo della risposta immunitaria. Importanti risultati sono stati ottenuti anche con l’analisi di esperimenti puramente in-vitro“. 

Nello studio vengono combinati un „relativamente semplice modello matematico dell’infezione da SHIV in HSC-F con un sistema di sperimentazione in-vitro che permette la misurazione della carica virale [vii] totale e infettiva e della concentrazione delle cellule bersaglio e infette. Le cellule HSC-F – un ceppo di cellule T CD4+ ricavato dai macachi cinomologo – sono state infettate in-vitro con il SHIV-KS661 a quattro molteplicità differenti di infezione (MOI [viii]) misurando poi il numero di Nef-negativi e Nef-positivi [ix] e della carica virale giornaliera per nove giorni. Con questi dati abbondanti e diversificati, siamo stati in grado di parametrizzare il modello dinamico e determinare stime affidabili dei parametri cinetici virali, in modo da quantificare il ciclo d’infezione“.

Per concludere gli autori affermano che „poiché il metodo qui presentato permette la risoluzione completa di tutti i parametri cinetici virali, permette anche l’identificazione dei meccanismi d’azione di nuovi composti antivirali. Infatti, ripetendo l’infezione sperimentale sotto varie concentrazioni antivirali rivelerebbe distintamente quali parametri (ad esempio, l’emivita delle cellule infette) sono influenzati dall’antivirale e in quale misura. Inoltre, può essere determinata in modo indipendente per ciascun parametro la concentrazione inibitoria del composto. Così, il nostro approccio sinergico, combinando esperimenti e modelli matematici, è dotato di ampi potenziali di applicazioni in virologia“.

Note:

[i] I retrovirus sono dei virus che grazie ad un enzima riescono a generare un filamento di DNA che inseritosi in una cellula ospite come provirus é in grado di replicarsi in modo autonomo o ricorrendo all’ausilio di altre componenti cellulari.

[ii] Il SIVcpz é ritenuto responsabile di causare nell’uomo il virus dell’HIV-1, poiché zoonotico, in grado quindi di venir trasmesso dall’animale all’uomo [3][4].

[iii] Strato più esterno che ricopre alcuni tipi di virus composto da un doppio strato di fosfolipidi, intervallati da numerose glicoproteine.

[iv] Le cellule T regolatrici (tra le quali le CD4+) hanno un ruolo fondamentale nel prevenire reazioni immuni nei confronti degli antigeni.

[v] Tempo necessario per ridurre il quantitativo di un farmaco o di una sostanza nell’organismo del 50%.

[vi] Il numero di fagi prodotti per batteri infettati o nella media di una popolazione di infezioni fagiche.

[vii] Quantità del virus in circolo.

[viii] Il rapporto tra il numero di agenti infettanti (es. virus) e il target di infezione (es. cellule).

[ix] Una proteina del virus HIV la quale presenza sembra essere necessaria per la replicazione virale e per lo sviluppo della patologia associata al AIDS.

Bibliografia:

[1] L. V. Chalifoux, D. J. Ringler, N. W. King, P. K. Sehgal, R. C. Desrosiers, M. D. Daniel, and N. L. Letvin. Lymphadenopathy in macaques experimentally infected with the simian immunodeficiency virus (SIV). Am J Pathol. 1987 July; 128(1): 104–110.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1899782/

[2] Sharp PM, Shaw GM, Hahn BH. Simian immunodeficiency virus infection of chimpanzees. J Virol. 2005 Apr;79(7):3891-902.

http://jvi.asm.org/content/79/7/3891

[3] Keele BF, Van Heuverswyn F, Li Y, Bailes E, Takehisa J, Santiago ML, Bibollet-Ruche F, Chen Y, Wain LV, Liegeois F, Loul S, Ngole EM, Bienvenue Y, Delaporte E, Brookfield JF, Sharp PM, Shaw GM, Peeters M, Hahn BH. Chimpanzee reservoirs of pandemic and nonpandemic HIV-1. Science. 2006 Jul 28;313(5786):523-6. Epub 2006 May 25.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2442710/

[4] Gao F, Bailes E, Robertson DL, Chen Y, Rodenburg CM, Michael SF, Cummins LB, Arthur LO, Peeters M, Shaw GM, Sharp PM, Hahn BH. Origin of HIV-1 in the chimpanzee Pan troglodytes troglodytes. Nature. 1999 Feb 4;397(6718):436-41.

ftp://weir.statgen.ncsu.edu/pub/thorne/viralreadings/gao.pdf

[5] Reimann KA, Li JT, Veazey R, Halloran M, Park IW, Karlsson GB, Sodroski J, Letvin NL. A chimeric simian/human immunodeficiency virus expressing a primary patient human immunodeficiency virus type 1 isolate env causes an AIDS-like disease after in vivo passage in rhesus monkeys. J Virol. 1996 Oct;70(10):6922-8.

http://jvi.asm.org/content/70/10/6922.short

[6] Thippeshappa R, Ruan H, Kimata JT. Breaking Barriers to an AIDS Model with Macaque-Tropic HIV-1 Derivatives. Biology (Basel). 2012 May 12;1(2):134-164.

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3546514/

[7] Iwami S, Holder BP, Beauchemin CA, Morita S, Tada T, Sato K, Igarashi T, Miura T. Quantification system for the viral dynamics of a highly pathogenic simian/human immunodeficiency virus based on an in vitro experiment and a mathematical model. Retrovirology. 2012 Feb 25;9:18. doi: 10.1186/1742-4690-9-18.

http://www.retrovirology.com/content/9/1/18

[S.P.]